L'analisi. L'area grigia dello Stato
- Redazione
‘Ndranghietare: modo di pensare e di agire che è riassunto nel verbo che alla mafia siciliana manca. Così aveva sintetizzato la terminologia utilizzata la fervida mente che l’aveva coniato, quella dello scrittore Saverio Strati nativo di Sant’Agata del Bianco, un centro nell’entroterra della Locride, deceduto il 9 aprile 2014, a quasi novant’anni. Era infatti nato il 16 agosto del 1924.
Lo fece nel 1956 quando pubblicò una serie di racconti raccolti nel libro La marchesina, raccogliendo il testimone di un altro grande della letteratura calabrese, scomparso lo stesso anno, Corrado Alvaro. Più prepotentemente in altre opere parlò diffusamente del fenomeno ‘ndranghetista e di tutte le sue implicazioni e sfaccettature, specie nell’opera letteraria Il selvaggio di Santa Venere che gli valse il premio Campiello.
I territori calabri, da sempre, vengono descritti come poveri e retrogradi, indietro di almeno trenta anni rispetto ad aree più progredite di questo nostro Paese eppure, un giovane letterato di estrazione contadina, ex manovale, autodidatta, originario proprio di quelle terre, ne aveva parlato diffusamente ed esplicitamente, in tempi in cui il fenomeno era praticamente sconosciuto fuori dai confini della Calabria. Trenta anni avanti, diremmo oggi, e non senza voltarci a guardare le sue opere che formano un saggio, utile alla conoscenza per decifrare, o decriptare, tali aspetti malavitosi e le sue connotazioni.
Una riflessione che ci avrebbe aiutato a interpretare e contrastare prima e meglio. Sarebbe bastato leggerle e analizzarle per capire che dentro quel termine, ‘ndranghietare, vi era la spiegazione di un mondo inquietante, sospeso, altalenante, che intendeva sostituirsi alle istituzioni e alle sue leggi, con il presidio, l’infiltrazione, il verbo, la collusione, l’assoggettamento, l’assolutismo, la violenza.
Basti pensare al particolare, non di poco conto, che gli ‘ndranghetisti si sono scelti un santo protettore, San Michele Arcangelo, condottiero delle angeliche milizie. “Mistificazione tra religiosità e tradizione” hanno scritto e codificato in tanti. Ma è proprio così? E se gli esperti delle fenomenologie si fossero sbagliati? Spiegazioni, discettazioni, argomentazioni che comunque, e sicuramente in buona fede, potrebbero aver celato il vero intento di chi, argutamente, in tempi più recenti a partire dal secondo dopo guerra, aveva fatto la scelta per sovrapporsi o addirittura sostituirsi allo Stato. Si, perché lo stesso santo è il protettore della polizia.
Qualcuno potrà obiettare o rilevare che il santo venne proclamato protettore e patrono della polizia da papa Pio XI il 29 settembre del 1949, quindi in un tempo in cui sicuramente la ‘ndrangheta già esisteva. Ma i riti associativi di cui siamo a conoscenza, osservati con molta più frequenza, si rifanno a episodi datati dagli anni Sessanta in avanti. E allora? Scelta tradizionale mista a religiosità o riscoperta di una gestualità nei riti di affiliazione ponderata e studiata, finalizzata a testimoniare la loro forza di intervento e capacità di risoluzione. O forse entrambe le cose.
Dall’analisi di quel termine, ‘ndranghietare, così efficace e chiarificatore, l’interpretazione della scelta contestuale nella simbologia, l’indicazione spirituale della chiamata a difendere. Ed ecco che la terminologia ‘ndranghietare, riemerge in tutta la sua efficacia e trasparenza. Modi di pensare e agire appunto, indicati dall’illuminante scrittore che, ritengo, non si riferiva solo agli affiliati ma anche a tutti coloro che si avvicinavano, a qualunque titolo, alla consorteria.
Probabilmente la stessa riflessione e rivelazione espressa molti anni dopo e contenuta in Poteri segreti e criminalità di Mario Guarino, (Dedalo editore 2007): “(La ‘ndrangheta) se oggi è diventata l’organizzazione più pericolosa e forte, lo si deve in gran parte [...] alla colpevole acquiescenza di un certo potere politico e da apparati delle istituzioni, che con essa colludono”. E con lo stesso spirito, il richiamo al sottostante estratto de La Torre Saracena (ABEditore 2014), in cui il riferimento alla vicinanza e a quello che vi è intorno, è esplicito e diretto. “Qui la chiamano ‘ndrangheta! Ma è all’area grigia che dobbiamo volgere il nostro sguardo, zona da disinfestare e ove si annidano le vipere con un piede nello Stato e l’altro nell’Antistato, di giorno col culo sprofondato sugli scranni di uffici e consigli istituzionali e di sera nelle poltroncine dei locali ove incontra il malaffare, accompagnati da donne truccate e ingioiellate che avvertono lo sporco ma non sentono l’olezzo, perché vivono di lacca, smalto e lucida labbra”.
Alcuni anni fa, sulla scrivania di un giovane magistrato milanese che iniziava ad occuparsi di metodologie e fenomenologie del crimine organizzato, notai diversi testi che parlavano di mafia. Gli consigliai di leggere e documentarsi sulle opere di Saverio Strati, lo avrebbero aiutato a capire meglio. Evidentemente lo fece perché, alcune settimane più tardi, incontrandolo per caso in quei corridoi, mi ringraziò. A Saverio Strati, persona che non ho mai conosciuto ma che ho apprezzato calpestando quei suoli che pure lui, anni prima, molti anni prima, aveva pestato.
Celeste Bruno