L'analisi. L’italiano che cambia
- Freedom Pentimalli
Negli ultimi giorni si è sentito molto parlare della denuncia sottoscritta da 600 accademici riguardo al “declino della lingua italiana”. In un articolo al riguardo su Repubblica (10 febbraio, pag. 39) Raffaella De Santis tira le somme con una frase che mi ha colpito perché aiuta a riflettere. La riporto in corsivo:
«Gramsci, studente di filologia, diceva che quando si agitano questioni di linguaggio c’è qualche sommovimento sociale in atto. Non può essere una semplice questione di vocabolario, chi parla male in genere vive male»
Il dato inconfutabile in tutta questa storia resta che in Italia non si sono mai avute così tante persone laureate come oggigiorno. Da una parte, quindi, un’istruzione di massa di alto livello, dall’altra un italiano sgrammaticato. Sembra un ossimoro, ma la figura del laureato dall’italiano insicuro è seriamente attuale.
Non sono del tutto d’accordo con i 600, però. Sarò in minoranza, ma non lo faccio per principio. Da che mondo è mondo, le grammatiche sono sempre arrivate dopo l’oralità, si è prima parlato e dopo scritto, si è prima scritto di tutto e poi si sono cercate le regole, le si sono messe insieme: così sono nate le grammatiche. Una grammatica è un tentativo continuo di fissare ciò che in una fase storica è corretto da ciò che non lo è. Influisce sull’oralità, ma è l’oralità che avrà l’ultima parola, sarà lei a consacrare l’uso o l’oblio di una parola, di un costrutto e via dicendo.
Ma veniamo a Gramsci. Oggi in Italia si vive male? Cosa significa vivere male? E chi parla bene, invece, vive bene? Una base comune dev’esserci, le cose sono interconnesse senz’altro. Se pensiamo che una persona “che ha le idee chiare”, che sa esprimersi con efficacia e ricercatezza, che gestisce con disinvoltura diversi registri linguistici, se riteniamo insomma che questa persona abbia molte possibilità di “vivere bene”, saremo arrivati al nocciolo della questione.
Abbi cura delle parole che usi, ci costruirai le tue idee. Abbi cura delle tue idee, ti porteranno a delle azioni. Abbi cura delle tue azioni, diventeranno le tue abitudini. Abbi cura delle tue abitudini, costituiranno la tua persona. Questo percorso è un ingranaggio e la grammatica ne è l’olio. Oggi si “agitano questioni di linguaggio” perché si è vicini ad una nuova grammatica, la si parla già: lui e non egli in funzione di soggetto, imperfetti ovunque al posto di congiuntivi, il che 10 volte nella stessa frase, il congiuntivo che sembra un terno al lotto, gli per riferirsi ad una donna al posto di le quando è complemento di termine, eccetera eccetera eccetera.
Le lingue, come ogni cosa, sono regolate dall’economia. Tendono a semplificarsi, ad essere alla portata di tutti, è un processo democratico. Ma una lingua semplificata non deve essere per forza sinonimo di una lingua incapace di esprimere complessità. In altre parole, se un italiano “sgrammaticato” e semplificato trova il modo di continuare ad essere analitico, ben venga. Se questa semplificazione invece porterà ad un appiattimento della capacità di ragionare siamo nei guai.
La lingua che parliamo fa da specchio a quanto abbiamo dentro, è lì che sta cambiando qualcosa, e le nostre parole ed il modo di usarle non sono che il primo campanello d’allarme. Quindi Gramsci condensava in una frase una profonda verità: il paradigma (la modalità) della “nuova” comunicazione si sta mostrando arbitrario, semplificativo e irrispettoso nei confronti della grammatica. E, da specchio, ne consegue che le nuove generazioni adottano una posizione di anarchia e si mostrano irrispettose verso le vecchie generazioni = grammatiche. Una grammatica non è mai solo una questione di lingua, quindi, ma un codice di comportamenti. Ed è quel codice di comportamenti che sta completamente cambiando in Italia. Resta da vedere se in positivo o in negativo.