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  •   Cosimo Sframeli
Il luogotenente Cosimo Sframeli Il luogotenente Cosimo Sframeli

É difficile stabile se nella storia della ‘ndrangheta siano stati più i morti e gli arrestati o gli interrogativi senza risposta. Da Santo Scidone di Palmi a ‘Ntoni Macrì di Siderno, da Mico Tripodo di Reggio Calabria a Peppe Nirta di San Luca, da Mommo Piromalli della Piana di Gioia Tauro a Paolo De Stefano di Reggio Calabria, il copione che avvolge ogni avvenimento importante legato alla ‘ndrangheta non è mai mutato.

Dietro il sangue e le manette si sono intrecciati legami oscuri, interessi inconfessabili e un’infinità di varianti del doppio gioco. La ‘ndrangheta, quella armata, a furia di omicidi e falsa politica, è stata usata proprio dalla Politica e favorita dai poteri economici e finanziari. Dubbi e misteri. E per addentrarci in un ginepraio tanto intricato occorrono competenza e perseveranza. 

Nel rivedere la storia organica della ‘ndrangheta con fatti e retroscena, con la summa di documenti, rapporti di carabinieri e polizia, sentenze, relazioni parlamentari, studi, ricerche, articoli di stampa, viene fuori una feroce autocritica, di cui soltanto una minoranza dei calabresi è apparentemente capace, che descrive Reggio Calabria, e la sua provincia, come una terra infelice, sfruttata, invidiata, minata dall’opportunismo e dalla viltà, percorsa da contiguità e tradimenti, dove rispettare le leggi e il proprio ruolo potrebbe diventare eroismo. 

A partire dal dopoguerra, è scolata una gran scia di sangue, segnando in maniera ininterrotta un periodo storico nevralgico. Sangue di carabinieri, poliziotti, magistrati, politici, pubblici funzionari, commercianti, imprenditori, operai, medici, sacerdoti, impiegati, pastori, artigiani, contadini; di testimoni e passanti, di donne e bambini, o di nemici eccellenti, come Tripodi, Salsone e Marino. Con un’incognita in più: il dover distinguere le vittime innocenti da quelle non del tutto o per nulla innocenti. 

I sicari dell’Onorata società, oltre ai nemici, hanno ammazzato gli amici; amici trasformati in possibili rivali, amici che hanno trascurato al dovere dell’obbedienza, amici verso cui è mancata la fiducia, amici che non sono serviti più; sia per punirli per una possibile indiretta responsabilità sia perché avrebbero potuto, un domani, pensare di vendicarsi. I sistemi per “regolare i conti” sono rimasti pressappoco gli stessi. Meno lupare e più mitragliette, disinformazione e delegittimazione, ma agguati sempre e dovunque, fin dentro le celle del carcere o le stanze dell’ospedale. 

Sono caduti picciotti, boss e aspiranti boss, e tutta una serie di personaggi provenienti da quel livello delle complicità usurate e andate a male. Complicità regionali, certo, ma molto forti su scala nazionale e internazionale. Sorge spontanea una domanda, con chi sarebbe stata la ‘ndrangheta in questo mezzo secolo? E chi sarebbe stato con la ‘ndrangheta? Ed è risaputo che la vocazione dei “don” è stata per tradizione governativa. 

A fiancheggiare coloro che sono stati detentori delle leve del comando, con scambio di favori e appoggi (per esempio, elettorali contro giudiziari) per ricavare vantaggi patrimoniali (droga, riciclaggio, affari). Sono stati i diretti testimoni a parlarne, con la loro voce, le loro passioni e le loro angosce. Hanno detto di ‘ndrangheta in modi diversi.

In forma polifonica, orchestrata su più voci, ciascuna con il suo timbro e la sua verità. Una polifonia, un’eccellenza del nostro tempo, che ha riprodotto una sorta di frammentazione proprio dove i diversi punti di vista si sono incrociati e sovrapposti, scontrati e discostati, in una lotta mai costante, a volte energica, altre fiacca e in taluni momenti dormiente, spesso basata su una erronea comprensione del fenomeno, rendendone insoliti e intriganti i cedimenti e i sacrifici dei servitori dello Stato, nonché di tutte le donne e gli uomini che ogni giorno hanno riscattato il proprio onore con il dovere, l’impegno, il sacrificio e la dignità del proprio lavoro perché si costruisse una società più giusta.


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