L’arte coccolata dal potere. La Rivoluzione è entrata in banca
- Ruggero Calvano
L’arte in generale dovrebbe stare sempre all’opposizione, alla stregua di un movimento politico che indipendentemente da chi stia al potere eserciti una critica brutale. Niente sconti, nemmeno quando i colori al comando siano cromaticamente amichevoli. Anche quando la politica fa bene, o piace, l’arte deve trovare il pelo nell’uovo. E invece, balle. Quarant’anni e passa di chiacchiere. Per parlare dal 68 in poi. Di rivoluzioni urlate sui palchi, nei libri, fra i giornali, in tv e al cinema, negli sfoghi privati. E il mutamento radicale non è mai arrivato, cambiando radicalmente solo la situazione economica di cantanti, scrittori, giornalisti e attori, quelli che hanno dato voce al malcontento della gente. Niente da fare, la protesta artistica e intellettuale, nonostante le eccellenze che l’hanno interpretata non ha fatto breccia in Occidente, sfondando al massimo il numero degli zeri sui conti in banca delle avanguardie rivoluzionarie. Perchè la protesta non si fa quando comandano gli amici e perché la protesta ai moderni regimi non nuoce, anzi, ne rafforza l’immagine democratica, illude alla possibilità del dissenso e di una certa libertà. Al contrario delle vecchie e rozze dittature del passato che rincorrevano e reprimevano ogni forma di critica politica. Le moderne democrazie apparenti permettono, fino a sostenerla, la critica più feroce, dalla satira alla nota rock più dura. Hanno capito che il popolo trova sfogo al proprio disagio con l’urlo di ribellione del paladino della battuta, dell’inno o del pezzo sagace. E negli ultimi decenni ne abbiamo visto di rivoltosi da proscenio che hanno fatto carriere fulminanti sotto le bandiere della lotta al potere, soprattutto di sinistra ma anche di destra. In tanti abbiamo urlato strofe mitiche o invettive muriatiche partorite dai nostri musicisti e intellettuali di riferimento. Abbiamo abboccato alle rivoluzioni da palcoscenico, televisive o concertuali. E i nostri miti sono invecchiati negli agi, e ce li troveremo fino ai novant’anni sui palchi del primo maggio ad arringarci e fornirci di slogan, insieme ai rivoluzionari in erba che cercano di seguirne le orme. Mezzo secolo di balle, di prese per il culo, con noi a comprare dischi, libri e biglietti del cinema. E nulla è mutato, perché la maggior parte degli eroi sul palco e sul proscenio il cambiamento non lo avrebbe mai voluto. Reazionari rossi e neri che sono entrati in banca. Tranne qualcuno sincero che in banca ci era nato, o arrivato, e se n’è uscito fuori con qualche pallottola, un cozzo stradale o una cirrosi epatica. Cinquant’anni di chiacchiere passate e altrettante che si profilano per il futuro. Ai mezzi del passato si è aggiunta la rete, così alle rivoluzioni dei nostri eroi ci partecipiamo in diretta, con un click, un mi piace, una condivisione e un tweet. E la verità è che nemmeno noi la rivoluzione la amiamo davvero, vorremmo tutti una chitarra, una penna o una telecamera. Non per fare la rivolta ma per entrare in banca pure noi. E pazienza, o comprensione, quando ci si vende per una carta di platino o d’oro, o al limite d’argento. Quando ci si prostra per una carezza o una medaglia di stagno, non si tratta d’arte ma di truffa.