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La testimonianza. Africo, come fu ucciso Salvatore Barbagallo quarant’anni fa: tutta la verità

  •   Rocco Palamara
La testimonianza. Africo, come fu ucciso Salvatore Barbagallo quarant’anni fa: tutta la verità

Sono trascorsi ormai 40 anni dalla morte di mio cognato Salvatore (Turi) Barbagallo, ucciso nella notte di capodanno 1977 ad Africo e ben presto dimenticato da tutti ad eccezione di amici e famigliari tra cui due figli lasciati piccolissimi. Eppure egli non è morto per questioni sue personali ma nel contesto di una lotta contro la ‘ndrangheta iniziata molti anni prima ad Africo e che per le sue modalità non addomesticabili dai potenti è come mai avvenuta, né Turi figura nelle liste ufficiali delle “vittime” dei mafiosi.

Il sacrificio di Turi é stato nel tempo coperto da un manto di ingratitudine e di ipocrisia, ma i primi torti vennero dagli inquirenti che chiusero il “caso” senza giustizia e senza verità. I carabinieri (che tutto seppero e tutto sanno) si attennero alle loro misteriose consegne omettendo parte dei fatti ma quel poco che fecero, arrestando tre picciotti, ci pensarono poi i magistrati ad azzerarlo accordando ai mafiosi la consueta impunità.

A noi fratelli Palamara coinvolti nel fatto convenne tacere affinché non fossimo ancora noi a pagare sotto quella squalificata magistratura di Locri. E non è dunque per reggere loro il gioco - o fare cosa gradita ai maledetti - che ho atteso tanto tempo per divulgare verità sottaciute e nascoste per ben otto lustri.

Stando alla Gazzetta del Sud del 2 gennaio 1977 (il primo di gennaio non uscirono i giornali) mio cognato, che era nato 26 anni prima a Sant’Agata del Bianco, ed abitava a Mariano Comense in provincia di Como, era stato colpito da un colpo di pistola e ucciso all’istante mentre si affacciava alla porta di casa mia, dove era venuto per passare le feste. Tra le ipotesi, scartata quella poco probabile di una pallottola vagante per gli spari della festa, venivano ventilate possibili vendette in riferimento allo “scontro tra bande rivali” in cui eravamo stati coinvolti sei anni prima (1970), allargando alla mia evasione dal carcere di Locri e al mio ferimento a “una gamba” (in realtà a entrambe) per un attentato di due anni prima; ma senza fare alcun accenno allo scontro a fuoco avvenuto nell’attigua piazza De Gasperi appena pochi minuti prima dell’uccisione di mio cognato che comunque veniva posticipata di un ora e mezza da quando effettivamente avvenuta (dalle 21.50 circa – a “meno di mezz’ora dell’arrivo del nuovo anno”, riportava la Gazzetta).

Il cronista riportava quanto gli dettavano i carabinieri che a loro volta fingevano di non sapere nulla di quella sparatoria in luogo ben illuminato, alla presenza di almeno 50 persone e con tracce evidenti dell’accaduto. Si saprà poi che c’erano stati anche due feriti, ma tale “verità” sfacciatamente monca restò quella ufficiale e definitiva. Pensate dunque a un fatto di cui al paese erano a conoscenza anche le pietre ma che nelle relazioni dei carabinieri della locale caserma e in quelle dei magistrati di Locri non c’è traccia.

Ma per capire meglio bisogna che io cominci dalla tradizione tutta africota di salutare l’arrivo del nuovo anno sparando in aria con tutto l’armamentario a disposizione, soprattutto con pistole illegalmente detenute e tirate fuori dai nascondigli non solo dai malandrini ma anche dalle persone più pacifiche e riservate. Nello spirito esaltante della festa nessuno approfittava delle armi per offendere ma, a cominciare dalla notte di capodanno 1975, tutto prese un’altra piega perché con le profonde divisioni anche lo svolgimento della festa diventava politica. Capitò solo per caso, ma quella sera noi compagni combinammo di armare ballo della tarantella in piazza de Gasperi che era il nostro punto abituale di ritrovo e la chiamavamo “Piazza Rossa”. Accendemmo anche il fuoco così che in breve si riempì di giovani, ragazzini e anche di adulti diventando di fatto il principale punto di riferimento della nottata. Qualche ‘ndranghetista venne per cercare rogne sparando in aria e rimediò schiaffi e pugni in faccia, altri sostarono brevemente silenziosi e scansati da tutti come degli appestati. Non era la piazza né il paese che volevano. La cosa che più li aveva disturbati fu però quel ballo in pubblico della tarantella, prerogativa ed ostaggio del potere malandrino sin dall’insediarsi ad Africo della prima picciotteria, nel secolo precedente. Non era solo questioni di ballo, s’intende, ma del fatto che una grossa parte del paese sfuggiva al loro controllo e che un gruppo numeroso di giovani intorno agli anarchici era in grado di fronteggiarli a ogni livello. Divenuta quella piazza il simbolo di un contendere generalizzato e la notte di capodanno il momento del confronto, ritornarono pure in quella successiva (1976) anche se allora non c’era né il ballo né il fuoco ma solo un presidio di compagni appartati a un angolo della piazza su una panchina addossata al muro delle case dritte in linea con casa mia, in Via Giuseppe di Vittorio. Arrivarono con una macchina e giunti al centro della spianata (allora era tutta libera la piazza) scesero e presero a sparare a raffica con dei mitra Beretta nuovi di zecca a cui, prima i ragazzi direttamente provocati e poi altri da case affacciate nella piazza, ribatterono con raffiche (sempre in aria) di risposta. L’intimidazione era così respinta ma, poiché a quel punto quelli fecero pure i risentiti, seguì un litigio tesissimo che poteva finire molto male se non fosse per l’accorrere di molte decine di uomini che si misero in mezzo al rischio della vita. Anche da uno dei miei balconi sparammo, e fu l’esordio di un’arma mai vista in paese: un fucile mitragliatore svizzero - tiro utile 3.800 metri - regalo di certi compagni tedeschi, al cui confronto le sparatine dei picciotti sembravano castagnole da bambini. Erano schermaglie a cui non potevamo sottrarci affinché i mafiosi non si facessero di sopra per sottometterci. Le armi poi erano la nostra sola risorsa da che, denunciando la prima volta, ricevemmo solo e ingiusta galera mentre i mafiosi continuavano ad attaccarci impuniti e protetti dalle istituzioni. Ben cinque di noi erano stati feriti a colpi di pistola o fucilate in quell’anno solo.

Secondo il detto “non c’è due senza tre” anche per quel capodanno di disgrazia 1977 c’era da aspettarsi l’arrivo dei provocatori. Ma forse anche no, per un fatto nuovo e probabilmente dissuasivo che era in corso nella provincia di Reggio. Si trattava di un’operazione speciale di polizia detta dei “baschi neri” con l’impiego di ben 6mila carabinieri concentrati nella Locride e che - a detta dei politicanti - era il toccasana per risolvere la questione dei sequestri di persona e per debellare la ‘ndrangheta. In realtà non liberarono nessuno e tantomeno furono di disturbo ai grossi e veri mafiosi, in compenso però resero la vita più difficile a tutti gli altri con pattugliamenti nelle montagne e nelle strade, perquisizioni domiciliari senza mandato (anche a casa mia) e l’esasperazione dei posti di blocco di cui uno permanente all’entrata di Africo. Era dunque per tanta e invasiva presenza che i mafiosi avrebbero potuto desistere dall’ormai tradizionale rottura di scatole di capodanno. Non bastasse il fatto in sé, nell’approssimarsi della festa furono proprio i malandrini a dare a intendere che per quella notte bisognava stare tutti tranquilli (quindi loro per primi) causa la presenza dei baschi neri. Più precisamente montarono la falsa notizia che sarebbero venuti per un blitz in grande stile in tutto il paese con perquisizioni nei bar, strade, case e personali ovunque, come era avvenuto la notte di capodanno di una decina di anni prima. Il loro scopo era di rendere noialtri spogli e inermi come polli, quella notte; e usarono ogni perfidia per convincerci, lavorandosi i più creduloni e anche i loro parenti, per fare breccia sugli altri compagni e in modo più diretto su me ed i miei fratelli. Si può dire che ci riuscirono (!), salvo il particolare che pur abboccando come tutti gli altri, noi preferimmo non separarci dalle nostre pistole (che di regola portavamo addosso - per difenderci) e tenere a portata di mano anche i pezzi più voluminosi che ci fu possibile nascondere dentro l’impastatrice del pane: una doppietta calibro 16 a canne mozze e un vecchio mitra Mab con relative cartucciere e munizioni. Poiché troppo ingombranti, lasciammo invece nascoste in campagna le nostre armi migliori: il fucile mitragliatore svizzero e un “Franchi” calibro 12 a canne sovrapposte quasi nuovo.

Calata la notte, dopo la consueta cena con la famiglia (all’ora solita degli altri giorni) tutti noi fratelli e nostro cognato Turi passammo nel locale del forno insieme al nostro amico e compagno Marioleo M. appena maggiorenne, ma che era talmente inviso ai mafiosi da dover stare da noi e non a casa sua presso la “nostra” stessa piazza. C’erano anche GE2JX23, LUJJEJ18 e N. M.; poi man mano arrivarono altri compagni e amici come da appuntamento per attendere insieme l’arrivo dell’anno nuovo. Eravamo in tutto una quindicina di ragazzi, e con anche mio padre che ogni tanto si affacciava andando e venendo dall’altra parte della casa dove stavano le mie sorelle con i fratelli più piccoli e mia madre. Una stanzetta con due porte collegava il forno all’abitazione e serviva da passaggio. L’atmosfera era tutto sommato serena e persino allegra accompagnati come eravamo da uno bravo con la chitarra. Già si cominciava con i brindisi quando un mio cugino che neanche attendavamo arrivò trafilato per dirci che i picciotti erano tornati nella piazza; che erano almeno una ventina; avevano mitra e fucili; e che già stavano litigando con i nostri e minacciando tale e talaltro di morte. Allora, senza bisogno che glielo dicessi, un mio fratello prese un grosso giravite e cominciò a svitare il pannello dell’impastatrice. Io mi rivolsi agli altri: «Andate qualcuno a vedere…». Poi, attraverso la stanzetta che dava sul corridoio dell’entrata, lasciai il locale del forno e andai verso la porta di casa per affacciarmi sulla piazza dove vidi che effettivamente c’era in corso un violento litigio tra i due gruppi, presso la solita panchina alla fine della piazza. Le loro voci esagitate mi arrivavano distinte e ben vedevo anche le canne dei fucili che sovrastavano le teste dal gruppo dei picciotti posizionati dalla parte aperta della spianata. Stava succedendo davvero un gran casino, e con qualcosa di molto strano, nella piazza rossa!

L’arrivo dei picciotti

Quello che stava accadendo in quel momento era al termine di un sorte di complotto cominciato con quella diceria riguardo i “baschi neri” , mentre per l’andamento di quella sera i picciotti erano partiti almeno mezz’ora prima da un punto imprecisato della parte bassa del paese percorrendolo poi per intero armati e sparando senza che nessuno venisse ad avvertirci. Gli stessi amici nostri se ne accorsero solo quando se li trovarono all’improvviso nella piazza.

Sapemmo ogni cosa solo alcuni giorni dopo. Lo squadrone dei picciotti si era mosso molto presto, partendo verso le 9 e mezza di sera. Un orario insolito per gli spostamenti delle comitive tipiche di quella notte, essendo ancora l’orario in cui uomini e ragazzi si attardavano nelle famiglie per la cena. Ma anche ciò non era stato scelto a caso. A vederli camminare sembrava una comitiva di altri tempi; precisamente come nella Chicago degli anni ’30 ai tempi di Al Capone, del quale si sentivano gli emuli, imitandolo persino nel vestire, una sorta di divisa: gessato doppiopetto a righe larghe con risvolta nei pantaloni e cappello a falde alla borsalino (è tutto vero!), senza trascurare le lunghe sciarpe svolazzanti e chiare che davano loro un tono di “Sfida all'Ok Corral” condita di più nostrana boria “spagnola”. Magari però si limitassero alla caricatura dei loro idoli italo americani! Come quegli altri invece anche i picciotti imbracciavano mitra, fucili e pistole che esibivano in modo spudorato (cosa niente affatto lecita neanche ad Africo). Di tanto in tanto tiravano dei colpi in aria come usuale della festa, ma in alcuni punti anche su case e cose di avversari, la qualcosa li distingueva dalla gente comune per collocarli tra i teppistelli di paese. Il fatto però che tra i danneggiati strada facendo vi furono due sindacalisti (uno con sforacchiature alla macchia e l’altro alla finestra) denotava già e piuttosto quello che erano veramente: picciotti di ‘ndrangheta nell’esercizio delle loro funzioni e con una ”missione” da compiere. Il gruppone tutto composto di giovani e giovanissimi picciotti delle principali famiglie di ‘ndrangheta comprendeva almeno quatto coppie di fratelli con relativa cuginanza, più altri scagnozzi di bassa lega, senza arte né parte.

Non era là, per essere precisi, tutta la picciotteria di Africo ma solo una parte ben delineata e circoscritta. Nel loro incedere lenti al centro della carreggiata si credevano il non plus ultra della malandrineria e il contraltare dell’odiata “sbirraglia” non sapendo forse (ed in questo rimanevano dei poveri “idealisti”) quanto invece tutto ciò era possibile e frutto di un accordo infame tra i loro capi e gli sbirri stessi. E del resto non era un mistero che il loro santo protettore fosse il panettiere dei sette forni: un prete potentissimo. Arrivati alle ultime case dal lato di Ferruzzano girarono e cominciarono la discesa giù per l’arteria centrale e sul percorso dei loro predecessori imboccarono Via Giuseppe di Vittorio dal tratto a monte “calando” così sulla Piazza Rossa.

La sparatoria

Quando tornai nel locale del forno attraversando la stanzetta che lo collegava col corridoio dell’entrata, trovai lo stesso mio fratello che stava tirando fuori dall’impastatrice il mitra e il fucile poggiandoli sul tavolo di lavorazione del pane e mio cognato Turi che si stava già sistemando addosso una delle cartucciere. Trovai tutto ciò regolare e appropriato per tenersi pronti a ogni evenienza, ma a quel punto domandai: «Chi è andato a vedere?», «Gianni!» rispose qualcuno. Gianni, inteso mio fratello, il gemello di Bruno, era l’ultima persona che avrei pensato di mandare in quella situazione. Non l’avevo visto uscire perché era passato dalla porta del forno e credendolo in pericolo mi “precipitai” nuovamente verso la porta principale per raggiungerlo.

Per la troppa fretta non pensai di prendere con me una pistola. Per la gravità delle ferite nell’attentato di due anni prima (centrato a entrambe le ginocchia e a una caviglia a fucilate quando ero già a terra), ero stato sottoposto da poco all’ennesimo intervento e ingessato nuovamente a una gamba. Camminavo perciò con estrema difficoltà e impiegai un’eternità per scendere i tre scalini di casa calandoli uno per volta, lentamente, e dopo aver poggiato su ognuno entrambi i piedi. Toccato finalmente il marciapiede presi a salire in su, verso la piazza, portandomi nel contempo al centro della strada da dove la vista sulla panchina non era impedita dai pali della luce posti al centro del marciapiede che da lì saliva per dritto. Con quella visione più ampia della scena vidi molto distintamente le due masse di ragazzi fronteggiarsi e litigare ancora molto animatamene.

Non scorgendo ancora mio fratello, continuai con i miei miseri passetti ad avanzare scrutando in fondo cercandolo con lo sguardo, quando vidi un gran sommovimento e la folla spartirsi con i picciotti staccarsi e portarsi verso il centro della piazza nel mentre si accompagnavano con folto fuoco di fucileria come di bafferdo saluto e ultima minaccia. I picciotti presero a camminare verso il centro della piazza e trasversalmente diritti per via Giuseppe Verdi che era quella parallela alla mia. Evitavano perciò di passarci davanti, ma nel farlo presero a tirare fucilate verso la casa di Marioleo che era di rimpetto alla panchina e dall’altra parte della piazza. Alcuni sparando continuavano nella discesa, altri si spostarono apposta da quel lato continuando a bersagliare porta e finestre con tutto l’armamentario che avevano e senza riguardo alcuno per l’incolumità delle persone eventualmente nella casa. I più si soffermarono ricaricando i fucili e replicando con i colpi fino a quando qualcuno pensò che dovevano darci un taglio e dell’altra parte della piazza prese a tirare su di loro.

Per quanto mi ero affrettato, in quel preciso momento avevo percorso solo una trentina dei circa quaranta metri per raggiungere la piazza ma ormai prossimo all’imbocco vidi anche i picciotti in fondo a sinistra nella piazza, come investiti da un gran vento, piegarsi e scappare in avanti, e girare nel contempo le armi e sparare sul lato destro, diritto davanti a me. Solo allora notai distintamente mio fratello, vedendolo che correva in giù rasentando le case, fino a che raggiunse palo della luce dove si riparò. Era esattamente su di lui che stavano sparando. In quel momento era a una ventina di metri alla mia destra, inerme sotto la fucileria dei picciotti verso i quali non sparava più nessuno. Fortunatamente il palo era di cemento ma non abbastanza grosso per coprirlo del tutto e io temevo di vederlo cadere in qualunque momento senza poter fare nulla per difenderlo. Sconvolto continuai ad avanzare con le mani avanti, come per voler fermare con quelle le pallottole, quando insperatamente alla mia destra vidi arrivare e superarmi GE2JX23, lanciato di corsa verso l’altro lato della piazza imprecando e sparando a braccio teso con una pistola automatica. Attaccati da questa altra angolazione i picciotti smisero di sparare su Gianni e spostarono il tiro su GE2JX23 che mi passava davanti completamente esposto; ma badando più che altro (e per fortuna) a scappare accelerando per portarsi fuori dall’area scoperta. Appresso giunse anche LUJJEJ18 col mitra e che dopo avermi superato di un paio di passi si fermò spianandolo verso i nemici, senza però fare fuoco. Gli gridai: «Spara! Spara!», «Si è incantato!» mi rispose furioso mentre prese ad armeggiare con l’otturatore. In quel momento i picciotti erano in rotta completa e non più nelle condizioni di controbattere; avesse funzionato il mitra sarebbe stato come falciarli nello scoperto della piazza. Ebbero una fortuna sfacciata! Ma, come se rigenerati da una fonte prodigiosa e le nostre risorse illimitate, appresso ancora, dal marciapiede alla mia sinistra, giunse anche Turi; una cartucciera a tracolla e tra le mani il fucile, correva spedito con ampie falcate sul fronte del fuoco. Rasentando le case da quel lato non era visibile ai nemici finché non sboccò sulla piazza dove fece in tempo a sparare un colpo prima che l’ultimo dei picciotti sparisse dalla vista. Seguitando in quella manovra tatticamente perfetta, costeggiando pure le abitazioni disposti ad arco di quel lato della piazza, li tallonò ancora fino quasi ad affacciarsi sulla parallela e quindi alle spalle dei picciotti in fuga precipitosa. Prima che completasse il giro però gli gridai di fermarsi e di ritornare indietro.

Vidi infine e finalmente Gianni lasciare il palo e correre verso di me e LUJJEJ18, salvo e integro. Anche GE2JX23 dal suo punto avanzato (e scoperto) nella spianata arretrò verso di noi così come Turi che ci raggiunse, ritrovandoci tutti e cinque all’imbocco della piazza dove chiesi se per caso qualcuno era stato colpito. Mi risposero tutti di no. «Rientriamo subito a casa!» dissi. Non mi pareva vero che da quel diluvio di pallottole uscivamo tutti senza neanche un graffio, ma ero sollevato anche dal fatto che, in tutta evidenza, non avevamo ucciso nessuno, che sempre disgrazia sarebbe stata. Per come configurato, l’isolato che ci separava dai nemici iscriveva una piramide tronca la cui cima tondeggiante costeggiava la piazza, ed ai lati la nostra via G. Di Vittorio e via Giuseppe Verdi collegate a loro volta da via Fratelli Bandiera costituente la base della “piramide”, che dal nostro lato sboccava poco sotto casa nostra. Seguitando nella loro fuga da via Giuseppe Verdi i nemici avevano svoltato prendendo d’infilata via Fratelli Bandiera, per ripararsi, ma se casomai avessero proseguito nella corsa potevano aggirarci da sotto tagliandoci la strada e colpirci anche con estrema facilità da dietro l’angolo sotto casa nostra. Incitai perciò di affrettarci a rientrare a casa. Nell’avvicinarci, infatti, dalla traversa arrivava già un gran trambusto di grida e imprecazioni dei picciotti (ne avevamo beccati due e non c’e ne eravamo neanche accorti). Ma Turi eseguì nuovamente una manovra tatticamente perfetta, ripercorse all’inverso il marciapiede dell’andata, raggiunse il livello di casa nostra e continuò a correre rasentando i muri, per andare a piazzarsi in quell’angolo strategico all’imbocco della traversa. Ma ancora una volta gli gridai di fermarsi - e di correre indietro da quest’altra parte per rientrare tutti insieme a casa nostra. Nuovamente dunque mi incaricai dell’incolumità dei picciotti (che in quella strada stretta e senza ripari si erano cacciati come in una trappola), ma soprattutto non volevo che Turi - o chiunque altro dei miei - corresse ancora dei rischi allo scoperto quando la nostra casa era un rifugio già raggiunto e sicuro, quasi una fortezza. Casa nostra, che per quattro quinti avevamo fabbricato con le nostre mani, improvvisandoci architetti, operai e muratori, era allora la più grande del paese e sovrastava tutte le altre intorno di ben due piani. Rientrati a casa ci preparammo a ogni evenienza ordinando per prima cosa alle donne di salire al primo piano. Dissi a GE2JX23 di salire e appostarsi sulla terrazza da dove si poteva controllare ogni cosa. Tutti gli altri restammo ancora al pianterreno dove ormai come prigionieri nel forno rimanevano gli altri compagni e amici. LUJJEJ18 si mise subito a smontare il mitra per aggiustarlo e poco dopo disse che era tutto a posto. Lo prese Gianni e si diresse anche lui su per le scale ai piani di sopra.

Morte di Turi

Con gli ospiti rimasti nel forno, noi di famiglia prendemmo a muoverci di qua e di là attraverso il corridoio dell’entrata, rimanendo in comunicazione tra di noi e in ogni punto della casa: il forno, le stanze di dietro e la scala che, dal corridoio stesso, portava ai piani superiori. E fu in quel girovagare che a un tratto, nel riaffacciarmi nel corridoio, vidi Turi di spalle armeggiare con la porta e, appena aperto un spiraglio, un improvviso strepitio di spari dall’esterno. Quasi all’istante lo vidi cadere all’indietro come se respinto da una forza irresistibile, mentre un rivolo di sangue copioso che gli calava dalla fronte. Come colonna d’un pezzo continuò a sostenersi sulle gambe e a stringere con entrambe le mani e al petto il fucile, e in quel modo solenne cadde quasi addosso a mio padre che gli stava più d’appresso e che lo sostenne fino ad adagiarlo sul pavimento, in posizione supina. Sul finire anche io diedi il mio piccolo contributo in quella tristissima incombenza. Appena adagiato Turi mio padre si affrettò a richiudere la porta; perché era chiaro che da lì arrivava il pericolo. Turi non diede più segni di vita. I nostri inutili richiami invocanti il suo nome annunciarono alle donne che qualcosa di molto grave era accaduto, e dal piano di sopra ci tornarono come un eco altre grida disperate. Dissi a ‘Ntoni, accorso dal forno, di salire là per non farle scendere, ed egli si sfogò tirando un calcio a una porta e urlando una sequenza di bestemmie. Mi imposi di mantenere la calma andando, per prima cosa, a dire agli amici nel forno di non muoversi assolutamente per il pericolo che, uscendo, fossero presi a bersaglio. Subito dopo udimmo passi concitati e un tonfo come di una persona arrivata a sbattere contro la porta, e poi un bussare ripetuto e frenetico con appelli ad aprire. Dalla voce capimmo che era uno dei nostri e lo facemmo entrare. Arrivando di corsa era scivolato sul sangue che aveva allagato anche fuori il pianerottolo. Turi a terra appariva grande e solenne nella sua figura composta nell’immobilità come di un cavaliere medievale già preparato alla sepoltura con quel suo fucile – al posto della spada – che stringeva ancora tra le mani e le cartucciere ed il giaccone azzurro impellicciato all’interno che gli faceva da mantello. Il largo bavero di finto vello bianco gli incorniciava il viso che non accusava dolore né ombra di paura e nemmeno mi appariva minuto e giovanile come ero abituato a vederlo da quando, a solo 16 anni, si era fidanzato con mia sorella. Lo vidi adulto finalmente e un vero uomo. Gli occhi aperti che guardavano ormai sul nulla. L’apparente vigore del suo viso contrastava con la docilità del suo corpo che si muoveva al nostro contatto e non reagiva ai nostri richiami disperati. Gli tolsi il fucile che stringeva ancora forte tra le mani e gli levai sfilandole le cartucciere che aveva entrambe sistemate intorno alla cintura. Ne indossai una e presi io il fucile. Allora Gianni, che intanto era sceso e mi stava accanto a posto di mio padre, impugnando il mitra e in piedi dietro la porta, mi propose di uscire subito e velocemente per sorprendere i nemici, di certo nei dintorni. Io frenai per l’ennesima volta ma niente affatto più per “pacifismo”: nel mio stato ci avrei messo almeno due minuti solo per scendere i tre scalini dell’uscio. Gianni mi avrebbe anticipato in tutti i pericoli... e io non potevo permetterlo. Pensando ormai all’arrivo imminente dei carabinieri rovistammo alla meglio nei vestiti di Turi per accertarci che non ci fossero altre cose compromettenti. Sapevamo che di lì a poco il suo corpo sarebbe passato nelle mani estranee e ostili della Legge. Scese da sopra anche GE2JX23 e disse di averlo visto lui lo sparatore puntare e tirare proprio da dietro quell’angolo maledetto. Un solo colpo! - in quanto a sua volta l’aveva intercettato e bersagliato con tre pistolettate senza però colpirlo, troppo coperto dall’angolo e velocemente ritirato. Gli dissi di risalire e continuare la guardia per timori di altri assalti; e rimanemmo ancora soli io e Gianni accanto al corpo di Turi. Con i pianti delle donne si annunciò fuori la morte di qualcuno di noi. Dopo un poco vedemmo dalla porta socchiusa che, sotto la casa dei vicini mafiosi, dall’angolo a vista della traversa, si erano raccolte un gruppo di persone vestiti anche loro stile Chiago. C’era un lampione che illuminava sufficientemente la scena e quelli attraverso la nostra feritoia apparivano dei bersagli perfetti. Gianni disse: «Sono tra quelli di prima. Spariamoli e ci vendichiamo!». Ma io notai, perché alto e biondo, il nostro vicino malandrino con ancora alle spalle la sua porta aperta (perché appena uscito) e che stava proprio al centro del gruppetto. Almeno lui non c’era nello scontro. Frenai ancora e per l’ennesima volta: «Non possiamo, c’è pure chi non centra…». Scese allora da sopra mia madre e si gettò su Turi iniziando a piangerlo con alte grida e ad abbracciarlo e toccandolo sul viso e dappertutto sul corpo. Costatando che aveva addosso il portafoglio glielo tolse porgendolo a noi e dicendoci: «Poi datelo a Maria! Qualunque cosa gli trovano addosso la sequestreranno». Gli pose la mano sul viso e la calò delicata chiudendogli gli occhi, poi si rivolse ancora a noi per domandarci se aveva addosso delle armi. Rispondemmo che non ne aveva più, ma lei frugò lo stesso trovando in una delle tasche del giaccone alcuni proiettili di pistola. Si girò per porgerceli e fulminandoci tutti con lo sguardo. Ormai padroneggiava la situazione (aveva solo 44 anni e non era né vecchia e né pazza, come dirà poi - toppando - Stajano nel suo libro Africo) e quasi ci ordinò: «Chiamate Maria! É giusto che pianga suo marito... e quando se non lo vedrà più?!». Mio padre salì di sopra dove c’era il telefono e chiamò i carabinieri, noi nel frattempo licenziammo tutti gli amici, facendoli uscire dalla porta del forno, per non coinvolgerli con la legge. Temendo la perquisizione affidai a un mio cugino tutte le armi per portarle al sicuro. Restammo disarmati delegando così la nostra sicurezza ai carabinieri pensando che sarebbero arrivati a momenti. Passarono i 10 minuti calcolati, poi altri 10 senza che si vedesse nessuno; eppure la loro caserma distava non più di 300 metri! Non avendo più con che difenderci la situazione si faceva preoccupante. Allora mio padre richiamò alla caserma e anche protestò per il ritardo, senza che ancora si facesse vivo uno straccio di carabiniere. Intanto la notizia si stava propagando per il paese: informato da qualcuno, si affacciò uno zio di Turi per costatare il fatto e subito se ne andò; appresso si affacciarono due amici del vecchio “circolo rivoluzionario” che dopo un po’ se ne andarono anche loro. Infine arrivarono da Pardesca del Bianco, accompagnati da altri parenti, il padre e un fratello di Turi che alla vista del loro congiunto a terra e col volto insanguinato reagirono con urla disperate, e subito dopo vennero portati via senza neanche averlo toccato. Erano arrivati i parenti dall’altro paese e i carabinieri lì vicino ancora no! Rimanemmo ancora soli. Da fuori intanto - come sapemmo il giorno dopo - i malandrini ci tenevano sotto controllo da tutte le parti. Con tutta calma - come se sicuri che nessun poliziotto o carabiniere li avrebbe disturbati -stavano appostati nello scuro della spianata delle vecchie baracche (non più esistenti perché incendiate) da dove - mitra alle mani - controllavano a distanza la mia casa e da vicino chiunque saliva da quella parte. Dopo un’ora e mezza, o forse più, anche i carabinieri si fecero vivi. Si erano fatti attendere ma appena arrivati si precipitarono dentro d’impéto come se arrivati dopo chissà quale corsa. Si comportarono da cani (con rispetto per le bestie): come se la mia casa fosse un’osteria e noi famigliari degli importuni avventori, con urla e spinte ci intimarono di allontanarci dal “cadavere”. Ci respingevano con le mani provocando una nostra reazione a stento repressa. E si rischiò la rissa tra noi e gli sbirri intorno al corpo di Turi. Mia madre protestò con quello che sembrava il comandante, perché sbraitava di più: «Ci hanno ucciso un famigliare in casa nostra, non è giusto che ci trattate così!». Ci respinsero comunque (erano numerosi) verso il locale del forno e là, tra i cassoni vuoti del pane, improvvisammo la sede del lutto.

Il lutto

In quel grande locale arrivarono man mano tutti i parenti, anche quelli più lontani o che non frequentavamo da anni. Rimanemmo così tutti e solamente tra di noi a piangerci il morto per l’intera notte. Dei compagni solamente uno, N. M. amico d’infanzia di mio fratello Bruno, rifiutò di lasciarci e rimase con noi fino all’ultimo. In quelle condizioni ci giunse l’anno nuovo. A mezzanotte solo in lontananza si sentirono degli spari, forse da parte di soggetti isolati e ignari di tutto. I carabinieri intanto dall’altro lato della casa facevano i rilievi e le fotografie finché, verso le tre, arrivò una macchina mortuaria con la bara per portarsi via il corpo di Turi. Fu quello il momento più straziante perché uscimmo tutti nella notte e nel freddo per dargli un ultimo saluto. Mi guardai attorno e in su e in giù fino agli estremi della strada e della piazza: non c’era anima viva, tranne noi ed i carabinieri. Quanta differenza da quella volta in cui, pochi anni prima, era stato ucciso uno ‘ndranghetista, nostro vicino di casa! Col corpo del morto all’obitorio, decine e decine di persone stazionarono allora di fronte casa sua, per rispetto, silenziosi e contriti per interi due giorni e due notti. Ecco un legante antico che univa fortemente la gente e rendeva la ‘ndrangheta più forte! In quella nostra solitudine, nuova, vidi invece il fallimento di un sogno, la sconfitta, e compresi che quella nostra “lotta di liberazione” per Africo non aveva alcun senso. Con la macchina mortuaria sparirono anche i carabinieri che ci lasciarono soli e indifesi per il resto della notte senza più ritornare, neanche nei giorni successivi. Ricomparirono solo alle prime luci del giorno, quasi furtivamente, le smilze figure di due giovanissimi agenti che, scesi da una piccola macchina, perlustrare un poco la piazza fino alla casa di Marioleo. Vidi l’intera scena attraverso la finestra del forno e non mi parse che raccogliessero qualcosa da terra. Rapidamente se ne andarono senza segnare appunti né fotografare. Per il fatto stesso di essere venuti sapevano già qualcosa, e comunque videro sul posto almeno quanto avevo visto io per averli preceduti là, solo da pochi minuti. Ero andato preoccupandomi per i genitori di Marioleo, trovando davanti casa loro un tappeto di bossoli e di cartucce; sbrecciature sulle mura e fori grossi come un pugno sulla porta e la finestra con altri squarci e interi pezzi di fasciame volati via dai colpi di fucile. Scrutando attraverso, non vidi all’interno traccia di persone né segno di ferimenti. Già durante la notte, come se li avessero pronti da chissà quanto, apparsero i vestiti neri indosso alle donne: camicie, gonne, magliette, calze, scialli e - per le adulte - anche i tristi fazzoletti, massimo simbolo del lutto. Quello indosso a mia sorella, di lucida stoffa nuova, lo pose mia zia con lento rituale in una sorte di tragica vestizione della vedova. Col giorno arrivarono, perché finalmente avvertiti, anche le mie anzianissime nonne. Tornarono man mano anche gli amici e i compagni con gli altri comuni paesani per darci le condoglianze. Tanti neanche li conoscevo. Coralmente, nell’anonimato della massa, il paese rispondeva, la gente esprimeva il suo cordoglio e una solidarietà che eravelato dissenso alla ‘ndrangheta, anche con la partecipazione al funerale, che fu imponente. Ad esprimerci solidarietà e vicinanza vennero alcuni compagni e amici nostri della Piana e del basso Vibonese, ma la visita che più ci fece piacere fu quella di un ragazzo dei più vicini e tra quelli offesi (più che noi) dai picciotti nella piazza. Aveva un messaggio che volle comunicarmi personalmente facendomi chiamare in un’altra stanza. Parlò con concitazione, come nel suo stile, per dirmi a nome suo e di altri, nominandoli, che erano a nostra completa disposizione per sparare tutti quelli che avrei detto. Sapendo che nella lista c’erano, nel caso, anche alcuni suoi cugini gli volli fare la domanda: «Tutti?». E lui mi rispose deciso: «Tutti, tutti!». Era più di quello che mi sarei aspettato ormai da loro. Ringraziai riservandomi la risposta, ma solo per non deluderli, avendo già deciso di far cadere l’offerta. Non potevo tradire le loro famiglie - che quasi me li avevano affidati come a un fratello maggiore - né i ragazzi stessi approfittandomi di loro per scatenare ad Africo una guerra sanguinosa che per altri versi non escludevo affatto. Nel tumulto di sentimenti e pensieri sorgeva nelle nostre riflessioni l’inaudita sicurezza con cui quelli si erano potuti permettere il lusso di girare armati in quel modo; di tenerci sotto assedio dopo; del fatto che i carabinieri sebbene chiamati erano venuti con i comodi loro e poi anche si erano comportati in quel modo infame; ed inoltre dell’inusitata assenza dei baschi neri nel bivio proprio quella sera, e ancora in quei giorni. A quel punto ci fu fin troppo chiaro quanto il paventato rastrellamento del paese era stata una notizia trabocchetto per disarmarci e agevolare la ronda dei picciotti. Ragioni di questa certezza le avevamo avute il giorno prima del funerale dalle parole di una comare nostra, moglie di uno ‘ndranghetista successivamente ucciso in una sanguinosa faida tra parenti, che ebbe a dire a mia madre: «Vostro figlio voleva stringere il paese nel suo pugno!», a motivo e fors’anche a giustificazione di quello che ci era accaduto; ma lasciando trapelare soprattutto come la ronda stessa era stata concepita allo scopo e nella “necessità” di indebolirci. Singolare la visita di quella donna che era arrivata apparentemente come le altre per l’usuale visita del lutto, ma che poi volle appartarsi con mia madre per esprimere in via riservata i suoi nient’affatto buoni sentimenti. O piuttosto riportare avvertenze e velate minacce della mafia. Tra la sua famiglia e la nostra c’era un importante sangianni, in ragione del quale venne a parlare con mia mamma per indurla a tenerci buoni... con ancora il corpo del povero Turi all’obitorio. Nella sua mancanza di tatto e sensibilità, indegne della sacralità del comparaggio, ebbe a suggerire della “necessità” di soprassedere su tutto e metterci l’anima in pace, concludendo con queste precise parole: «Comare, per il morto il più è metterlo sottoterra che poi con tempo il dolore passa!». Mia madre gli rispose: «Io non lo so se passa il dolore ma vi auguro, comare, che anche voi abbiate la sorte di avere un morto ancora sopraterra e altri che vi dicono le stesse cose che state dicendo a me!». Quando finalmente quella se ne andò, mia madre era più infuriata che addolorata e quasi gridò: «Anche loro un giorno dovranno piangere!». E qui mi fermo, considerando per seguito la conquista facile della Calabria da parte dei mafiosi per grave colpa di altri e la “profezia” di mia madre avverasi ben oltre (purtroppo) il suo nefasto auspicio.

Rocco Palamara


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