Le statue a Garibaldi e la Questione Calabria
- Michele Papalia
Poche riflessioni senza le ambizioni dello storico né del saggista.
Prima ancora che Garibaldi entri a Napoli - apice della disfatta borbonica e culmine dell’invasione piemontese sul sacro suolo di casa alle porte dei lumi domestici - ha inizio un’altra storia. Viene alla ribalta la questione meridionale, prima di Gaeta questione costituzionale se in tre occasioni il Borbone promise la Costituzione e per la sua mancata concessione, ma non solo, cadde e perì.
Dunque Garibaldi a Napoli, il 7 settembre 1860. L’ingresso delle camicie rosse avviene con il beneplacito del capo camorra Salvatore De Crescenzo, per gli amici Tore ‘e Crescienzo, invocato e convocato da Liborio Romano, sleale ministro borbonico nell’ordire con Cavour e Garibaldi lo spodestamento di Francesco II, proprio costui infatti l’aveva nominato ministro dell’interno e direttore di polizia.
Alla camorra quindi – istituzione para governativa borbonica, da molti additata come figlia primogenita di Ferdinando II – gli uomini della nuova Italia danno in appalto il servizio dell’ordine pubblico per non intralciare l’invasione nella capitale del Regno. Se l’atto di nascita fu scritto a Torino, per l’Italia Unita quello di Napoli fu l’atto di battesimo: immersa in una acquasantiera di tradimenti e connivenza con i poteri deviati, Salvatore De Crescenzo a recitare il ruolo di padrino.
Ma tant’è, l’Italia venne fatta e da lì in poi sarebbero stati fatti anche gli italiani: e i calabresi? I calabresi nella loro storia, non solo quella decisa e scritta dai potenti e nelle conferenze dei plenipotenziari, ci sono sempre stati, quanto meno nel processo di unificazione, in gestazione già dalla fine del Settecento: si comincia dalla rivoluzione sanfedista dell’ambiguo cardinale Fabrizio Ruffo, per alcuni clericale estremista per altri grande innovatore. Nel fatidico 1799 partì dalla Calabria più meridionale l’enigmatico cardinale con l’esercito di sanfedisti e sulle nostre montagne fece incetta di uomini: a Santo Stefano, ad Africo, a San Luca. Si fronteggiò con il primo brigantaggio politico l’invasione dei francesi che, seppur capaci di rivoluzionarie riforme – in primis l’abolizione della feudalità rimasta lettera morta con la restaurazione borbonica nonché le innovazioni fiscali portate dal catasto murattiano – furono osteggiati con il sangue calabrese. Pochi anni dopo, troviamo il generale Guglielmo Pepe da Squillace, attore insieme a Michele Morelli da Monteleone del primo tentativo insurrezionale a invocazione della Costituzione. In quei frangenti, erano gli anni delle purghe borboniche, si rafforza l’idea dei calabresi ribelli e della Calabria insidiosissima, regione a impulso rivoluzionario. A dire il vero già molto prima, nel 1570, nella Relazione che si fa al Marchese di Mondesciar e viceré di Napoli, i calabresi vengono descritti da Camillo Porzio: “Acuti d’ingegno e pieni d’astuzia, forti e nervosi, atti a patir sete e fame, coraggiosi e destri nel maneggiar le armi, e sarebbero senza dubbio i migliori soldati d’Italia, se non fossero instabili e sediziosi”.
Ancora a Napoli, tra gli studenti universitari, specie ai capuzielli calavrisi guardava la polizia borbonica, capaci solo loro di mettere in discussione la tirannia di Ferdinando II, sfidandola a colpi di rivoluzione.
E poi gli immortali fratelli Bandiera, gli impavidi e mai abbastanza ricordati cinque martiri di Gerace; le barricate del maggio 1848 a Napoli, primi protagonisti i reggini Agostino Plutino e Casimiro De Lieto; l’arbereshe Agesilao Milano che invano attenta a Ferdinando II. Da ultimo, il contributo decisivo nel processo di unificazione dato da altri figli della nostra terra: non solo personaggi influenti, ma ribelli e irriducibili contro gli assolutismi di qualunque colore politico.
Ma allora, gli impavidi calabresi, orgogliosi, laboriosi e testardi – o almeno presuntivamente tali – come sono divenuti zavorra e palla al piede di un’Italia che preferisce guardare a Nord, curando solo testa e cuore e lasciando zoppicare gli arti inferiori? Di chi le responsabilità politiche e morali della questione calabrese, sotto tipo di quella meridionale? 1)Dei Borbone, incapaci di riformarsi, spagnoli e spagnoleschi nel più corrotto conservatorismo 2)Di Garibaldi, finanziato dalla massoneria inglese e dei Savoia, felici invasori e colonizzatori del Regno di Napoli, munto fino alle ossa 3)Dei deputati calabresi, inadeguati e venduti, ciechi ai bisogni della terra madre 4)Dello Stato indifferente accentratore che dal 18 febbraio 1861, prima seduta parlamentare dell’Italia unita, al 1970, anno di istituzione delle autonomie regionali, ha malgovernato, rimanendo sordo al fracasso dell’emigrazione e cieco al mutismo degli analfabeti 5)Del popolo calabrese tutto, dai ceti più subalterni, di ieri e di oggi, alla nobiltà decaduta e ai nuovi baroni: inabile questa gente di scegliersi degni rappresentanti e poi, accortasi dei lupi, pronta a belare a mo’ di pecora indifesa 6) Della ‘ndrangheta soverchiante, collusa con i poteri deviati, morbo di queste contrade, avendone succhiato il sangue e così impedendo di ossigenarne le menti più illuminate.
Si è peccato molto in Calabria negli ultimi due secoli, si è peccato in parole, opere e soprattutto omissioni. A ogni modo, le responsabilità dolosamente perpetrate sono cadute in prescrizione e l’inesorabile decorso del tempo ha accompagnato i principali imputati nel regno dei morti, seppure vi erano altre colpe da attribuire e altri soggetti da far sedere al banco degli accusati.
Vi prego di non tacciarmi di vittimismo spicciolo e di convenire che la parte offesa rimarrà senza risarcimento. Concordate pure che accanto alle innumerevoli innalzate a Garibaldi, una statua se la meritava pure la buon’anima di Salvatore De Crescenzo.