Malanova. Una storia antica, una cronaca attuale
- Domenico Luppino
Qualche anno fa mi imbattei, curiosando tra gli scaffali di una libreria romana, in un libro il cui titolo i suscitò una irrefrenabile curiosità: “Malanova”. Era troppo mia, nostra, quella parola, perché io non afferrassi quel testo con già l’inconscia consapevolezza che comunque lo avrei acquistato. Lessi il contenuto della controcopertina e la storia, se pur per grandi linee, mi tornò alla mente. Sono troppe le storie tragiche e drammatiche che capitano dalle mie parti. Capita, quindi, che parecchie di queste si finisca per non seguirle come meriterebbero. Oppure, me ne feci convinto dopo, dopo averne sentito i primi cenni, per il contenuto molto più cruento, triste e squallido di tante altre, si finisce, senza saperlo, per non volerne conoscere i particolari. Tanto che sentivo un forte senso di colpa, forse complice proprio il fatto di trovarmi in quel contesto che non era il mio, per non saperne di più di quella vicenda.
Uscito dalla libreria finii per sedermi al tavolino di un bar di una Roma del centro, avvolta in una atmosfera euforica prenatalizia. Divorai il racconto in qualche ora e più mi inoltravo in quelle pagine terribili, più montava dentro di me un potente disgusto. Acuito in maniera esponenziale, proprio dal trovarmi in quel contesto fisico. Quanto era lontana Roma e la sua gente dalla mia terra? Solo uno spazio di qualche centinaio di chilometri. Dall’altro canto, non potevo evitare di pensare che vi fosse una differenza di tempo lunga qualche migliaio di anni.
Mi sentivo fuori posto, inadeguato, provavo un senso di profondissima vergogna. La gente che mi passava accanto, non poteva non sapere che io appartenessi a quella stessa razza di cui avevo letto in quel libro. Doveva per forza leggermelo in faccia. Io, nato e cresciuto in Calabria, non ero diverso dagli aguzzini che avevano abusato sessualmente di una ragazzina di 13 anni, Maria Scarfò era il suo nome. Perché ero parte di quella gente, quella gente che si era guardata bene dal condannarli e divenendo di fatto complice. Ne conoscevo i modi, i costumi, gli usi e sapevo quanto fossero capaci delle più atroci barbarie. Non già e non solo nel compire il delitto in se, quanto nel far divenire la vittima sventurata come la vera carnefice. Maria, per tutti, era divenuta “Malanova”. Una disgrazia, una iattura senza pari per l’intera comunità. Una puttana, che non le era bastato di essere tale, ma aveva squarciato il muro dell’ignoranza e dell’omertà. Aveva denunciato, Maria, facendo finire in galera i propri carnefici.
Mi sentivo sporco e, quando giunsi all’ultima pagina del libro, lo chiusi sapendo che probabilmente non sarei più riuscito a riaprirlo. Avrebbe fatto troppo male. Tornato a casa, in Calabria, senza pensarci, riposi il libro in uno degli angoli più remoti della libreria. Come si fa per le vicende della vita di cui ci si vergogna profondamente. Non si possono rimuovere totalmente, ma ci si sforza di collocarli negli anfratti più remoti della nostra memoria.
Sono passati tanti anni, dai fatti e dalla mia lettura di quella vicenda. Le cronache locali di questi giorni raccontano di una nuova Maria o, meglio, di una nuova “Malanova”. Non importa dove i fatti sono avvenuti, né nel primo e né nel secondo caso, basti di sapere che sono accaduti in Calabria e più precisamente nella provincia di Reggio. Gli ingredienti ci sono tutti, sono gli stessi di sempre: ignoranza, ‘ndrangheta, silenzio, omertà, paura…
Basti di sapere che, come avvenne nel primo caso, anche nell’ultimo mi è capitato di ascoltare le parole di un cosiddetto professionista. Si, uno di quelli che dovrebbe essere parte della nostra classe dirigente. Nessuna umana pietà, nessun segnale di pentimento per avere contribuito, come noi tutti, a costruire una simile mostruosa realtà: la Comunità? Si fa i fatti propri, ed è meglio così!