Melito Porto Salvo. Il veterocomunista, l’elettore ed i “compari”
- Mimmo Musolino
Avevo deciso di non occuparmi mai più di argomenti elettorali e di recidere, per sempre, il coriaceo e passionale cordone ombelicale che mi legava alla politica in generale e amministrativa in particolare. Ma l’eco lontana delle note, battute sul pc, di una canzone popolare… e pubblicata on line su “in Aspromonte”, mi costringono a riprendere ancora, per un’altra sola volta, i temi in questione.
Le ragioni della mia decisione erano da individuare nella coerente conseguenza delle tante riflessioni, esternate prima e dopo le elezioni del 31 maggio scorso. Ma i ragionamenti si rivelarono, nei fatti, sbagliati per difetto di analisi della realtà territoriale e sociale, e per un’eccessiva dose di ottimismo e fiducia sulle capacità delle masse popolari di non subire coercizioni.
Si sosteneva che questa volta i poteri forti si sarebbero presentati divisi: “Divide et impera”, locuzione latina e antico motto accreditato a Filippo il Macedone.
Perché i presupposti del ragionamento erano sbagliati?
Si, era vero che erano divisi, ma purtroppo il numero dei “nemici politici” in questo modo era raddoppiato e la lista che rappresentava un autentico rinnovamento e cambiamento si trovò tra due fuochi infernali e fu, negli ultimi tre giorni di campagna elettorale, sottoposta ad un feroce attacco concentrico, come stretta in una morsa di acciaio (tra le due liste avversarie) con una stroncatura di voti incredibile ad opera di veri e propri esperti, e micidiali professionisti, del voto di lista e delle preferenze che non lasciarono scampo.
Allo scopo è necessario fare un esempio e vi racconto una storia.
Era il giovedì precedente la domenica del voto ed insieme al candidato, l’ingegnere Pietro, mio carissimo amico, di provenienza politica completamente opposta alla mia, anche prima della caduta del muro di Berlino nel novembre del 1989. Io democristiano e Pietro militante nel partito dei comunisti italiani (molto e totalmente diversi dai bolscevichi), ed egli era uno dei più anziani candidati in lista, però esternava una passione ed un entusiasmo incredibile di partecipazione.
Io, ex democristiano di lungo corso, al suo cospetto, ero certamente meno garantista e meno aperto alle logiche politico-sociali del mondo multietnico e globalizzato. Ci presentammo puntuali, previo appuntamento, presso il domicilio del nostro interlocutore, che chiameremo Donato. L’accoglienza fu tipica della gente calabrese: generosa, sincera e gioviale e un desco ricco di vivande tipiche (capocolli, formaggi, vino e quant’altro) venne apparecchiato velocemente dalla gentile padrona di casa.
Io conoscevo già da molto tempo il nostro potenziale elettore e tra lui e Pietro, discorso dopo discorso, si era consolidata una buona e positiva intesa, con progetti di frequentazione per il dopo elezioni.
Di fatti al commiato l’impegno di Donato fu categorico: «Caro ingegnere nel seggio nel quale io andrò a votare vi usciranno molte preferenze».
All’indomani del voto, quando ebbi a disposizione le tabelle con le preferenze sezione per sezione, alla sezione elettorale dove Donato aveva votato – brutale ironia del destino – le preferenze riportate da Pietro erano uguali allo zero.
Dopo qualche giorno incontrai Donato alla posta, dapprima cercò accuratamente di evitarmi ma ad un certo punto me lo ritrovai davanti occasionalmente.
Dopo un attimo di smarrimento mi disse: «Siete rimasto contento dei voti?». Io risposi: «Se si può essere contenti di niente, ebbene lo sono!». A quel punto Donato, acceso in viso come una aragosta, per un improvviso sbalzo di pressione, cercò di contestare il mio dato e difronte e alle sue patetiche e puerili insistenze gli mostrai la tabella con le preferenze seggio per seggio.
Ma Donato non si diede per vinto ed esclamò furente: «Ma siete sicuro che questo è il seggio dove ho votato e che non hanno fatto imbrogli?». A quel punto lo guardai con malcelata sofferenza, gli girai le spalle e feci per andarmene, ma mi sentii prendere per un braccio: era Donato che mi disse di appartarci perché mi doveva parlare.
Ed iniziò la sua amara, triste e sofferta confessione. Mi disse con il volto contrito: «Mi dovete credere, sull’anima dei morti, che ero sincero quando dissi che io, i parenti ed i miei amici, avremmo mantenuto l’impegno preso di votare l’ingegnere che è galantuomo e persona per bene». Ma per due notti di seguito, la stessa notte di giovedì (sicuramente vi avranno visti entrare in casa mia) ed il venerdì alcune persone hanno bussato con frequenza alla porta ed io ho resistito a non aprire ma la terza notte, quella di sabato, le bussate si sono fatte più insistenti ed io sono stato costretto ad aprire la porta per non spaventare la mia famiglia. Il resto lo capite da solo, siete padre di famiglia e di tanta esperienza!».
Guardai, molto perplesso, Donato che mi sembrava rimpicciolito ed aveva gli occhi rosso-pomodoro e umidi di pianto. A quel punto presi la sua mano e gliela strinsi forte e senza renderci conto fummo accomunati in uno spontaneo abbraccio. Ed io pensai che queste angosciose, terribili ed umilianti violenze morali, subite da Donato, chissà in quante altre famiglie si erano materializzate.
E poi come nascondere il fatto avvilente e pauroso, indegno di un paese appena civile, dell’assillante e maniacale presidio dei seggi elettorali. E questo fin dalle prime luci dell’alba della domenica elettorale, da parte di candidati e sostenitori, accampati come per sferrare un violento attacco a Fort Apache, ed avvertire gli allibiti e disarmati elettori della loro presenza: “Guarda che noi siamo qui e ti stiamo controllando!”.
E solo nel tardo pomeriggio, quando la situazione era completamente precipitata, vi era stato l’intervento provvidenziale delle forze dell’ordine a porre qualche argine a quella barbara invasione che si potrebbe evitare semplicemente facendo rispettare la legge elettorale in materia di ordine pubblico. Se analoghe situazioni si verificassero in Iraq o Afghanistan, dove le operazioni di voto avvengono sotto il controllo di osservatori dell’Onu, sicuramente costoro farebbero intervenire i caschi blu in assetto di guerra.
E mi convinsi, con grande sofferenza, dopo tantissimi anni di lotte e di resistenza politica, anche all’interno del mio stesso partito, del fatto che se questa Città fosse costruita su un terreno chiamato Legalità essa sprofonderebbe in un abisso senza fondo in un solo attimo.
E con lo sguardo al Cielo, giurai su Dio che quella sarebbe stata la mia ultima ed infima umiliazione al cospetto assurdo, cieco e malvagio, del potere e che mai più mi sarei trovato in una simile condizione di umana e tragica impotenza civica e morale a causa di campagne elettorali e che avrei riversato tutte le mie residue energie, fisiche e mentali, nell’impegno sociale e culturale.