San Luca. Gente onesta nella Locride
- Cosimo Sframeli
La frase era stata scolpita sul marmo, all’ingresso del Municipio: “La disperazione più grave che possa impadronirsi d’una società è il dubbio che vivere rettamente sia inutile”.
Corrado Alvaro, a quel tempo, doveva averla pensata come un’esortazione. Ma il tempo l’aveva mutata in una constatazione; proprio una lapide. Gli abitanti di San Luca, occupati e preoccupati dalle pratiche per la sopravvivenza quotidiana, non ci facevano più caso. Per il paese non si passava per caso. La strada, che dallo Jonio saliva tra ulivi e mandarini alle pendici della montagna, portava a San Luca o ai boschi dell’Aspromonte dove trovavano rifugio latitanti e dove venivano tenuti prigionieri i sequestrati della ‘ndrangheta. San Luca, così tramandavano le cronache di mezzo secolo, era il centro che contendeva a Platì il titolo della capitale dei rapimenti. E di lì, incatenati nelle cantine, nei casolari, nelle grotte, in buchi scavati nella terra, passarono più di una cinquantina di sequestrati dall’Anonima calabrese. L’aspetto del paese era quello della frontiera aspromontana, una macchia di case con 5.000 abitanti, schedati fin dalla tenera età. Il solito repertorio di immagini arcaiche, lo stesso di dieci o di cento anni prima. I fori dei pallettoni sui cartelli stradali, le vecchie vestite di nero, gli anziani seduti in piazza, i giovani disoccupati del bar, i ragazzini che sciamavano attorno al forestiero.
Le lamentele sul lavoro che mancava, la terra arida, i parenti ingiustamente incarcerati. E qualche buontempone che, di tanto in tanto, la notte, si divertiva a sparare un paio di colpi di pistola contro la Caserma dei Carabinieri. Prendere semplicemente atto di tanta violenza, pur così diffusa e appariscente, avrebbe potuto significare continuare ad agire dall’alto di un pulpito. A leggere i giornali e sentire la televisione, in quei paesi erano tutti iene. Senza distinzioni. Chi era calabrese, della provincia di Reggio Calabria, era un criminale. Schiacciati tra l’incudine delle cosche, che imponevano con il terrore la legge dell’omertà, e il martello dello Stato e dei mass media, che criminalizzavano senza tanti distinguo intere comunità. I calabresi, i sanluchesi, alla fine, avevano scelto la via della sfiducia. Alle sette di sera i paesi si svuotavano. Tutti a casa, per paura di vedere qualcosa che non andava visto o di incappare in un posto di blocco. Chi poteva se ne andava. Chi restava pensava a sopravvivere.
Delle storie di paese non si parlava nemmeno tra compaesani al bar. Potevano esserci orecchie indiscrete. I paesi erano abitati soprattutto da gente onesta che si sfogava in famiglia o con gli amici più intimi, se qualcuno avesse saputo qualcosa di un sequestrato avrebbe potuto pur riferirlo ai Carabinieri, ma quasi certamente sarebbe stato ammazzato. Quindi, stava zitto. Storie che si ripetevano. A San Luca, la parte vecchia del paese, a monte, era quasi disabitata dall’inizio degli anni Settanta quando un’alluvione fece franare una montagna e le strade, spingendo gli abitanti a trasferirsi. I cittadini di quei paesi andavano fieri delle loro mura spoglie e mal rifinite, con gli infissi e i tetti piantati alla meno peggio, quasi a simboleggiare la loro precaria provvisorietà. Forse, erano case brutte e qualcuno aveva pure detto che vivevano come bestie. Ma in quei mattoni c’erano anni di sudore e di umiliazioni, di baracche, di padri che si erano levati il pane di bocca. Era consuetudine che le figlie per sposarsi avrebbero dovuto portare in dote la casa e, visto che i soldi non bastavano mai, la gente andava a vivere nelle case non finite. Ci fu l’arrivo del segretario del PCI, il partito che a San Luca otteneva la maggioranza assoluta dei voti.
La logica che governava, oltre a quella espressa nel segreto dell’urna, era come intessuta da fili invisibili che avvolgevano l’intera comunità in una spirale di diffidenza e di paura. Sopra il paese, alle pendici dell’Aspromonte, quando nevicava, per la strada andavano avanti mandrie di mucche. Erano di nessuno. O meglio, nessuno osava chiederlo. Le chiamavano le vacche sacre. Nel senso che avevano libertà assoluta di pascolo, ovunque, anche nei terreni coltivati. Guai a protestare. Era così. L’omertà, come il rispetto per quelle famiglie che contavano, si basava non tanto su una solidarietà attiva quanto sul terrore. Un potere agro-pastorale più temuto che riverito. Leggi semplici che, però, bisognava imparare a conoscere fin da bambini. All’Istituto commerciale di Bovalino, quando liberarono Marco Fiora, fu assegnato un tema che chiedeva agli studenti di raccontare cosa pensassero del sequestro di quel ragazzo. In quattordici si rifiutarono di svolgere il compito. Erano tutti di San Luca.