15-18 ottobre 1951. Alluvione ad Africo e Casalinuovo
- Cosimo Sframeli
Fatti luttuosi in Aspromonte, in località dove anche i piccoli rumori sapevano di sensibilità, gli odori sapevano ammaliare e i colori morbidi dell’autunno si adoperavano per stabilire una simbiosi equilibrata con l’ambiente. Sensazioni che si ritrovavano dove l’uomo con la sua antropizzazione non era ancora riuscito a penetrare. Un luogo dove di colpo tutto cambiò. Distruzione con dolore forte, pungente, aggressivo, invadente. Quell’inconfondibile odore di morte sembrava quasi impossibile, laddove tutto parlava di comunità, di tradizioni, di gioia, di vita, di libertà, di emozioni anche forti. Eppure, le forze della natura, eventi improvvisi e violenti, aggredirono quel popolo che viveva nella montagna, sconvolgendo l’esistenza stessa degli abitanti di Africo e di Casalnuovo.
Ad oggi, il 15 ottobre 1951 è un giorno indimenticabile e storico per tutta la sua gente. Raccontarono i superstiti e tra questi il maresciallo maggiore Aiutante C.S. (allora Vicebrigadiere) dei Carabinieri Salvatore Scalia (oggi in quiescenza), ultimo comandante della Stazione di Africo, che per quattro interminabili giorni, dal 15 al 18 ottobre 1951, una bufera di vento, pioggia e nevischio si abbatté ininterrottamente sui due paesi causando frane, crolli di abitazioni e la distruzione di intere colture. La gente, spaventata, si riversò in massa in chiesa, pregando Dio e San Leo, suo Santo protettore. La mattina del 18 ottobre il cielo si tinse di rosso, l’aria pesante e rossastra e le conseguenze furono disastrose. In molti, sorpresi dal maltempo, non fecero in tempo a mettersi in salvo. La piena del fiume Aposcipo impedì che ritornassero agli affetti di casa. I morti furono sei a Casalnuovo e tre ad Africo. Gran parte del bestiame, insieme alle colture, fu trascinato a valle dalle acque del fiume e tante case furono distrutte o sepolte. In seguito al tragico evento, il popolo di Africo subì il peregrinare di decenni, con gravi peripezie e umiliazioni di ogni genere. Quindi, il trasferimento definitivo alla marina per una forte scelta politica. Con la forza che tempo dona, la sua “perduta” gente riuscì a risorgere e continua a mantenere in vita identità e tradizione.