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In Aspromonte
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Bova. La storia del Dott. Antonino Bosco

  •   Gianfranco Marino
Bova. La storia del Dott. Antonino Bosco

«Dottore vinni n’africotu a lu bar e ndi dissi chi a Casalinovu nce una chi ndavi a partorìri, ma ddassùpra a li campi non sacciu si si passa, a lu casèllu dici chi ndavi troppa nivi» «Non fa niente, ora chiamo i carabinieri e ci facciamo accompagnare con la Campagnola, con quella passiamo di sicuro, poi ho capito chi è la ragazza che deve partorire, l’ho visitata qualche settimana addietro, è una gravidanza difficile, se non andiamo questa rischia di perdere il bambino».

È dura la vita del medico condotto in Aspromonte, nella metà degli anni Sessanta, in quegli anni Casalnuovo d’Africo è quasi completamente isolato, con una strada difficilmente percorribile che d’inverno diventa un’odissea e, da Bova, il tragitto diventa improponibile già arrivati ai 1300 metri di monte Grosso, prima di prendere la discesa lungo quei tornanti maledetti. Per la cronaca, quel bambino è nato proprio quella notte, tra le braccia di Antonino Bosco medico condotto di Bova, davanti allo sguardo bonario degli uomini della Benemerita e naturalmente a quello della sua mamma e dei familiari. Fu dura quella notte arrivare a Casalnuovo, con i carabinieri ed il medico impegnati col badile a spalare la neve che in alcuni tratti raggiungeva il mezzo metro d’altezza. Quell’impresa andata a buon fine, valse al medico un articolo sulla Gazzetta del Sud ed ai militari un encomio solenne. È piena di storie così la nostra montagna, quella in bianco e nero della metà del secolo scorso, è piena di figure come quella di Antonino Bosco, medico in trincea, e poi si sa, lo dicono i racconti, chi di noi non ha sentito raccontare almeno una volta le storie di un Aspromonte dove c’erano alcune figure alle quali non ci si poteva sottrarre. Il sindaco, il medico, il farmacista, il sacerdote, il maresciallo dei carabinieri ed il capo mafia, per bisogno, per paura, ma soprattutto per quel retaggio culturale che ancora resisteva in modo forte, specie nelle aree più interne di una montagna assai lontana dal mare, sicuramente molto più lontana di oggi.

Quella di Antonino Bosco, classe 1925 da Monasterace, è una di quelle storie che inizia a Bova e si conclude, anzitempo, proprio a Monasterace. Correva l’anno 1962 quando l’allora trentasettenne Bosco vinceva il concorso come condotto, ufficiale sanitario. Le sedi vacanti all’epoca erano tantissime, tra queste c’era anche Bova, e le visite per scegliere la sede iniziarono e finirono proprio nel centro dell’Aspromonte greco dove il giovane fu subito folgorato tanto dalla bellezza dei panorami quanto dall’accoglienza di chiara matrice magnogreca. Quella gentilezza innata, quegli straordinari profumi, quei colori e poi quella lingua incomprensibile, quell’antico dialetto che non poteva non affascinare chi, come lui, amava profondamente la cultura ellenica. A dargli per primo il benvenuto, come si conveniva all’epoca, fu manco a dirlo il sindaco Pasquale Foti e, nel giro di qualche mese, Antonino si trasferì a Bova con famigliola al seguito, la moglie Elda, i figli Annamaria, Vincenza e Domenico. Già in quegli anni, Bova non era la solita montagna di allora, era già più avanti, era un centro culturalmente molto vivo, luogo ideale per lavorare e soprattutto per stringere rapporti umani di solida amicizia. In quel contesto il medico del paese si doveva occupare di tutta la specialistica e della chirurgica, era ginecologo, dentista, piccolo chirurgo e tra una partita a carte e una passeggiata con gli amici coltivava anche un’altra passione, quella per il calcio e per la Reggina, che seguiva scendendo giù a Reggio con l’auto piena di ragazzi cui fungeva da noleggio improvvisato. Appassionato come dicevamo di cultura classica, affascinato dal grecanico, non mancò uno di quegli appuntamenti che per Bova fecero storia: la visita del glottologo tedesco Gerhard Rohlfs, futuro cittadino onorario, con cui strinse una profonda amicizia. Tempo addietro ho conosciuto casualmente Domenico, uno dei suoi figli a cui ho chiesto di ricordare qualche aneddoto, qualche episodio, qualche particolare di una Bova di tanto tempo fa. «Di Bova – mi dice Domenico – conservo ricordi bellissimi, come possono essere quelli di un bambino; quanto a mio padre, posso dire che è stato di certo un uomo che ha saputo conquistare la fiducia dei bovesi per i quali è diventato non solo il medico per antonomasia ma, per tanti, anche l’amico e il consigliere. Ricordo che il campanello di casa nostra suonava a tutte le ore e per noi era normale guardarlo dalla finestra, partire anche nel pieno della notte, così come accadde assai spesso nel 1972 in occasione dell’alluvione che colpì Bova e l’Aspromonte orientale. Una sera, con l’acqua che veniva giù senza sosta ormai da giorni, sentimmo delle urla e papà, senza esitare, si catapultò fuori di casa raggiungendo il luogo da dove provenivano le grida. Una casa, a causa della pioggia, era venuta giù: era casa Zavettieri, quella che tutti conoscevamo come la casa delle “sartine”. Papà arrivò per primo iniziando a scavare a mani nude senza sosta per liberarle, ci riuscì anche grazie all’aiuto di tanti paesani che nel frattempo erano sopraggiunti, ma purtroppo dalle macerie affiorò anche un cadavere, era quello della madre. A due anni di distanza, dopo dodici lunghi anni di permanenza a Bova, papà vinse il concorso come medico condotto e ufficiale sanitario nel suo paese a Monasterace dove ci trasferimmo definitivamente, ma a distanza di tanti anni mi sento di dire che il legame con Bova e con i bovesi non si è mai realmente dissolto, l’amore per quel paese è riuscito a trasmetterlo anche a noi, anche ai più piccoli che da Bova siamo andati via ancora bambini. E, a distanza di tanto tempo, ci sentiamo anche un poi orgogliosamente bovisciani». Antonino Bosco è scomparso prematuramente all’età di 71 anni, ma su, a Bova, il suo nome è ricorrente, negli aneddoti, nei racconti, nelle storie; il suo nome torna puntuale come parte integrante della storia del centro, di una storia che, una volta scritta, sa parlare di sé, della sua gente, dei suoi fatti e dei suoi luoghi, meglio di ogni altra cosa.


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