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Calabria greca. O Postéri, il portalettere

  •   Gianfranco Marino
Calabria greca. O Postéri, il portalettere

«Faceva un freddo tremendo quel 2 di gennaio del ‘49 a Bova, erano le 5:30 del mattino, in piazza davanti l’ufficio postale c’eravamo io e Domenico, lui era il titolare io un semplice aiutante. Partimmo a piedi e la tormenta che imperversava da qualche ora ci avrebbe accompagnato fino al primo pomeriggio. Arrivammo a Roghudi verso le 10:00 e quando fummo là al centro di quel piccolo abitato mi sembrò di essere all’altro mondo, era il mio primo giorno di lavoro, non lo dimenticherò mai».

Il racconto di Pietro comincia in modo estremamente lucido, come una cartolina. Pietro ha 93 anni, lo incrocio quasi per caso davanti alla sua abitazione mentre appoggiandosi ad un bastone guarda fisso l’orizzonte verso Cerasìa, Pietrapennata e la valle dei mulini. Il sole caldo di marzo ci fa dimenticare per un attimo che l’inverno non è ancora finito, neanche da calendario, e che il tepore sicuramente lascerà ancora spazio a qualche altro sussulto di gelo, come spesso capita anche fino alla fine di aprile.

«Gianfranco entrate che vi offro qualcosa?» «Vi ringrazio, ho già preso il caffè, però se avete tempo mi piacerebbe sentire la storia di quando andavate su e giù per le montagne con quei sacchi pieni di lettere sulle spalle, e di quella volta quando una signora vi disse di entrare e voi non capivate»

«Accomodatevi che facciamo quattro chiacchiere e vi racconto qualcosa. Sono in pensione ormai dal 1988 ma sicuramente come è finita di certo ve lo ricordate bene, allora vi racconto l’inizio. Presi servizio il 2 gennaio del ‘49 a Roghudi, dove rimasi fino al 9 marzo del ‘62. Eravamo io e un altro mio paesano, Domenico Romeo, che era titolare del servizio e aveva un contratto per spedizione pacchi e distribuzione posta ordinaria. Si partiva da Bova alle 5:30 del mattino e si arrivava a Roghudi verso le 8:30, se tutto filava liscio rientravamo poco dopo le 17:00, era dura ma lo stipendio era buono. Ora vi racconto il primo impatto con Roghudi che per me è stato traumatico. Giunto in paese mi accolse un gruppo di giovanotti seduti su un parapetto “Giuvanottu chi cercati, siti lu novu posteri?”. Alla mia risposta affermativa mi chiesero subito quanto tempo fossi stato in carcere, risposi che non ero mai stato carcerato, loro incalzarono domandandomi dove avessi fatto il militare e risposi ancora che non ero mai stato neanche militare. “Giuvanottu, si non fustevu ne sordatu e ne in galera cca non potiti stari, vergognativi! Puru lu previti fici quattru iorna di carceru”. Insomma, il primo giorno non lasciava presagire nulla di buono, in seguito però mi dovetti ricredere. Finito il giro a Roghudi salimmo verso la frazione Ghorio e ricordo bene un episodio davvero curioso, quello a cui accennavate prima. Il primo giorno di lavoro a Ghorio, sempre nel ‘49, bussai alla porta di una signora anziana, una vecchietta che abitava da sola. Da dentro sentii una voce che ripeteva in modo ossessivo sempre la stessa frase “Piosìste, piosìste?”, non capendo mi allontanai. Il giorno seguente la scena si ripeté fino a quando un vicino di casa, vedendomi in difficoltà, mi svelò che la signora non conosceva né l’italiano né il dialetto, e che parlava solo il greco antico e mi suggerì di rispondere a quella domanda dicendo “O posteri”, il postino. Seguii il consiglio e solo allora capii che la signora stava solo chiedendo chi fosse a bussare, fu allora che imparai con grande meraviglia che a tanta gente, almeno a quella più anziana, era sconosciuta non solo la lingua italiana ma persino il dialetto. Dopo un po’ di tempo mi ambientai davvero bene e la gente di Roghudi, contrariamente al primo impatto, si dimostrò assai ospitale. A quel punto il vero ostacolo rimaneva il tragitto che separava Roghudi da Bova, un percorso che soprattutto in inverno ti metteva di fronte a ogni tipo di insidia. Una sera verso la fine di marzo, sulla strada del ritorno, arrivato al passo della zzita da dove già si vedeva Bova, mi colse all’improvviso una tormenta di neve con raffiche di vento talmente forti da non riuscire a rimanere piantato con i piedi a terra e di colpo mi trovai sbalzato dalla mulattiera al precipizio. Un riflesso tempestivo, repentino, mi aiutò ad aggrapparmi ad un pero selvatico le cui spine si conficcarono talmente in fondo alla carne da lacerarla come un coltello, garantendomi però di non precipitare nel vuoto. Ci vollero venti giorni per guarire dalle ferite, qualcuno in più per superare lo shock. Terminata la positiva esperienza a Roghudi ne iniziai un’altra non meno dura e faticosa. Dal ‘62 al ‘76 fui infatti assegnato all’ufficio postale di Casalnuovo d’Africo dove trovai il compaesano Bruno Barbarello responsabile dell’esattoria che, di tanto tanto, mi chiedeva di sostituirlo nella consegna delle cartelle esattoriali e di altri pacchi. Anche da queste parti non mancarono le avventure e i momenti di paura. Ricordo che una volta partii alla volta di Africo con un pacco consegnatomi proprio da Barbarello senza sapere cosa contenesse. Mi accorsi solo giunto a destinazione che per tutto il tragitto ero stato scortato a mia insaputa da cinque carabinieri, nel pacco c’erano i primi stipendi per gli operai forestali: 2 milioni e 600 mila lire, una cifra davvero consistente per l’epoca. Giù al vecchio abitato di Africo non c’era più nessuno ormai da quasi dieci anni, c’erano solo alcune famiglie più a monte, a Carrà (a lu Carrùsu). A Casalinuovo, dove c’erano ancora tante famiglie più quelli che facevano la spola per lavorare alla forestale e accudire le mandrie, avevano trasferito l’ufficio postale di Africo dopo l’alluvione, ma già negli ultimi anni l’ufficio era stato declassato a ricevitoria. Lo stipendio era di 92 mila lire al mese e per evitare di essere trasferiti a Siderno ci autotassammo per la somma di 5 mila lire al mese, così di evitare la chiusura dell’ufficio. Nel ‘76 arrivai a Bova dove chiusi definitivamente nell’88. Gianfranco devo dire la verità, mi ritengo fortunato per avere vissuto una vita tutto sommato tranquilla e, con quella gente che molti evitavano, mi sono trovato davvero bene, aiutato e mai infastidito. Mi sono trovato bene su questi monti dove tutto mi ha fatto compagnia, il freddo il caldo, la fame e i colori che ricordo ancora, le ginestre, la neve, il verde dei prati e poi ancora le pecore, le capre e le mucche. Secondo voi cosa potevo chiedere di più? Poi ogni tanto capitate voi o qualcun altro a cui piace sentire queste storie e io mi diverto a raccontare e mi sembra di tornare giovane».

Negli occhi di Pietro, nelle sue parole, nel suo fisico piegato dal tempo assai più della sua memoria non fatico a trovare un rincorrersi di sentimenti contrastanti. La fatica, le esperienze, i racconti di un mondo che sembra davvero lontano per ritmi, per emozioni, per lentezza regalano a me, e anche a Pietro, un misto di gioia e malinconia per quella vita e quel tempo non più replicabile. Vi ringrazio, ora vado che devo scendere giù in marina. «Buona giornata Gianfranco, salutate la signora e, quando volete, tornate che magari mi viene in mente qualche altra cosa. Aspettati un’attimu, ma dda fotografia chi mi scattastevu la pubblicati a carchi parti?».


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