Campi di Bova, "L'orti di Masciu Leu"
- Gianfranco Marino
Aspetto la neve, la prima dell’inverno o, se preferite, l’ultima dell’anno.
Il vento oggi è costante e insopportabile, imperversa violento, entra nella canna fumaria del camino e mi fa compagnia con rumori sinistri, ora metallici, ora simili ad una voce roca e graffiante.
Come capita ormai da qualche anno, quando aspetto la neve come oggi, davanti al camino acceso, in una nebbiosa, ultima domenica dell’anno, mi tornano alla mente racconti, aneddoti, storie, a volte nitide, altre volte sfocate dal tempo. Mi torna alla mente, non so perché, uno dei tanti racconti che sentivo da bambino, uno di quelli che, quando si saliva sù, in montagna, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio del decennio successivo, partivano quasi in automatico, ed io ascoltavo, affascinato dalla possibilità di conoscere chi e cosa fosse stato prima di me in quei luoghi che stavo attraversando.
Mi dicevano di un uomo robusto, tarchiato, con i baffi neri, con una flotta di figli al suo capezzale e con una moglie di quelle di una volta, una signora schiva, ospitale, gentile ma allo stesso tempo dallo sguardo severo, accigliato, quasi plasmato dalla natura ostile che faceva da palcoscenico a quelle vite. Non ho mai saputo come si chiamasse realmente quel signore, o meglio, non ho mai saputo quale fosse il suo cognome, nei racconti lo chiamavano semplicemente masciu Leu, mi dicevano che tutti lo conoscevano come “masciu Leu bonu”.
Ecco masciu Leu bonu, proprio lui! E io continuando ad ascoltare il racconto, guardavo le strade che mi si aprivano davanti, lunghe, alberate, piene di felci e piene di un profondo senso di solitudine che mi rendeva difficile credere che da quelle parti ci potesse essere stata vita, in quel passato che dai racconti riaffiorava ricco di particolari. Allora la domanda, che mi ripetevo in modo ossessivo, era: conosciuto da tutti, ma tutti chi, e soprattutto dove?
Salendo sù, per la via della montagna, quella che si inoltra dando le spalle al mare, salutando le sue benevoli e miti correnti e portando verso un dedalo impenetrabile che se alzi la testa scorgi la sagoma del Montalto a sovrastare Portella Materazzi, i Piani d’Elia e Serro Juncari, ad un certo punto ti imbatti in un bivio, uno dei tantissimi bivi che in Aspromonte ti indirizzano verso le aree più interne e nascoste del massiccio, su quel bivio c’è una costruzione in cemento armato su due livelli, è uno dei tanti rifugi, belli, curati, con le giostrine ad accogliere bambini nelle giornate d’estate e con quei barbecue che solo a vederli ti fanno immaginare salsicce e costolette di maiale o agnello.
Nelle giornate d’estate, all’ombra di quei pini e di quei pioppi, risuonano organetto e tamburello, si balla e si canta nei giorni feriali, e gli operai idraulico forestali ci lavorano pure in quelle costruzioni in mezzo al bosco, oggi punto d’approdo irrinunciabile per gitanti della domenica, cercatori di funghi, appassionati di trekking, fotografi.
Quando si arrivava da quelle parti, il racconto si fermava su quel rifugio, là dove, prima della guerra, al posto di quella costruzione in cemento armato, con balconi e finestre a mo’ di chalet, c’era una casa più bassa, in pietra, col tetto in tegole. Era uno dei rifugi costruiti per garantire un riparo ai tanti viandanti che da Africo e Roghudi, e dalle loro popolose frazioni, raggiungevano a piedi o a dorso di mulo la marina per fare provviste.
Proprio là, ad attendere chiunque ne avesse bisogno, con un pasto caldo, con un fuoco acceso o semplicemente con un bicchiere di vino, di grappa o di cordiale c’era lui, masciu Leu bonu, c’era sua moglie e c’erano quei ragazzi avvezzi, come pochi, alle asprezze di una montagna che per loro era inevitabilmente diventata una seconda mamma, ma anche una maestra di vita e un luogo di gioco e di lavoro. Tutti conoscevano quell’uomo e la sua famiglia, soprattutto africoti e roghudisi e lui, da buon montanaro, con quella casa, concessagli dal comune in cambio dei suoi servigi alle comunità dell’entroterra, passava le giornate nei suoi orti, dove patate, pomodori e granturco, ma anche frutta di stagione, crescevano ingrossati dall’acqua che sgorgava da ogni angolo non appena i ghiacci invernali lasciavano il posto al giallo delle ginestre.
I racconti riproponevano spesso la rigidità di inverni durante i quali le nevicate erano insistenti e copiose, tanto da costringere masciu Leu, e quanti percorrevano quelle lunghe distese di ghiaccio, a passare in vere e proprie gallerie scavate nella neve, piccole piste ricavate a fatica dove entravano a stento un viandante e il suo compagno di viaggio, quasi sempre un mulo carico di provviste.
Ricordo che mi si raccontava di giornate d’inverno passate al focolare in quella casa con quei bambini, fermi ad osservare le stalattiti che scendevano dalle tegole, il più piccolo si addormentava quasi sempre davanti al braciere e la mamma, quasi impietosita, non lo svegliava, mettendogli da parte un pezzo di pane e companatico. La mattina passava così, un occhio alla finestra e uno al focolare, dove sulla brace ardente c’era l’immancabile salsiccia, ad accompagnare le fette di pane appena sfornato.
Era un via vai di gente su quelle montagne, un andirivieni lento ed estenuante, un anelito di vita difficilmente replicabile, per modi, tempi, ritmi e soprattutto sentimenti, oggi evidentemente non più uguali. Erano tempi e prospettive estremamente lente su quei monti, era un’epoca di speranza e di sogni che iniziavano e finivano proprio là, mentre nei paesi la vita brulicava, quelle immense distese, ora spoglie ora ricche di vegetazione, parlavano di lavoro e fatica.
C’era l’aria dove si fiatava il grano, c’erano le patate ed i pomodori, c’erano le immancabili capre e le mucche con l’aratro, c’erano poi quelle buche lunghe e profonde dove riponevi la neve, debitamente coperta sopra e sotto da uno spesso strato di felci e lasciata là ad attendere la calura dell’estate che, a fondovalle, diventava insopportabile e, quando il sole raggiungeva lo zenit, c’era chi, dissotterrando quel ghiaccio gelosamente custodito per mesi, si improvvisava gelataio.
Penso spesso a quei racconti, penso al percorso lungo cui mi venivano raccontati, penso che ormai da anni quel percorso lo faccio da solo, accompagnato dall’autoradio, dalle cartoline che ho nella mente, da quei ricordi, in cui a tenermi compagnia c’é sempre la montagna con le sue luci e le sue ombre, con le sue voci e i suoi rumori.
Quassù avverti il rumore del silenzio come in nessun altro posto, è un rumore sordo che diventa fruscio dell’anima, in montagna ci si può perdere, ma ci si può anche ritrovare, in montagna puoi ritrovare te stesso, puoi ritrovare il tuo passato pensando al futuro, puoi risentire ogni volta che vuoi il rumore del silenzio e in quel silenzio immaginare, anche senza averli mai visti, i volti di masciu Leu, di sua moglie, di quei bambini e delle tante persone che su quelle strade hanno segnato un tempo irripetibile.
La nebbia è andata via, il vento sembra essersi placato, per la neve è questione di giorni o forse anche di ore, lei tornerà e io sarò là ad osservarla da dietro la finestra. La guarderò scendere lenta a coprire tutto, riproponendo l’unica magia capace di fermare il tempo.