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Careri. «Io, Francesco Perri e l’Aspromonte»

  •   Mimmo Musolino
Careri. «Io, Francesco Perri e l’Aspromonte»

Il sole stava trovando rifugio dietro le pinete e i faggi dell’Aspromonte, e la sua ombra si allungava sui tetti a ciaramide, variamente colorate, delle case avvolte in un silenzio arcano. Da non molto tempo ero tornato dal convitto di Palmi, dove studiavo presso l’Istituto tecnico agrario statale, ed ero nella mia abitazione, sita in uno dei punti più alti e panoramici del paese. Da lì si poteva ammirare tutta la parte del paese sita a sud-ovest, dalla via Roma alla Rugarandi, e tutto l’Aspromonte e il mare della marina di Bovalino.

Ad un tratto sentii bussare decisamente alla porta, che stava sempre socchiusa e con la chiave lasciata tranquillamente nella serratura, come si usava a quel tempo nei paesi; mi affacciai ed era un paesano, ‘Ntoni, che mi disse con voce rauca e perentoria: «Mimmu, cala sutta a Chiesia chi c’esti ‘nomu chi ti voli parlari». Inutilmente cercai di farmi spiegare, dallo stranito ‘mbasciaturi, chi fosse quest’uomo e che cosa da me potesse volere. La risposta fu: «Si tu voi veniri, veni, si no ‘nci dicu chi non ti truvai o chi no ‘u vulisti vidiri, a secundu i comu mi sduna».

Non avendo niente da temere, o da nascondere, riposi i miei libri – stavo studiando – in un cassetto e, con passo svelto, mi recai all’ignoto appuntamento preceduto dall’enigmatico e lunatico messaggero. Quando arrivammo vicino al bar di gnura Rosa Ielasi, poi ben gestito da mastro Mimmo Papandrea, marito della figlia Maria, u ‘mbasciaturu mi fece cenno con la mano e disse: «Chigluglià e l’omu chi ti voli parlari».

Appoggiato al muretto davanti a me si elevò la figura di un uomo anziano, alto, magro, il viso rigato da qualche ruga ma ancora dall’espressione determinata e giovanile; i radi capelli gli facevano come da corona alla testa, in quanto coprivano le sue tempie e la parte bassa della nuca, e sembravano di seta bianca. Aveva lineamenti gentili, da autentico galantuomo. Mi squadrò con sguardo curioso e indagatore e mi disse: «Sei tu Mimmo, il figlio di mastro Bruno, che sta studiando per perito agrario?» «Si, sono io! In che cosa vi posso essere utile?», gli risposi con voce decisa ma al contempo ossequiosa, in quanto avevo percepito che quella persona possedeva grande carisma. «No, in niente – egli rispose, con somma umiltà – io sono il cugino Francesco Perri, ho sentito parlare di te. Ti volevo conoscere e fare quattro chiacchiere».

In famiglia e in paese avevo sentito parlare di un personaggio famoso, della famiglia dei Perri, che abitava a Pavia e che aveva una lunga e tormentata, ma al contempo affascinante, appassionante e prestigiosa storia alle spalle, e che scriveva libri per adulti e per bambini e su tanti giornali, ed era stato anche direttore. Ma, a quel tempo, a meno di vent’anni di età, avevo altre cose alle quali pensare e non approfondii mai l’argomento. «Professore – gli risposi – il piacere di conoscervi e di parlare con voi è tutto mio». Ed egli con modi gentili, quasi scherzosi, mi rispose: «Professore è il mio carissimo nipote Vincenzino1, io faccio il pensionato e prima ero impiegato2 dello Stato nelle Poste, da dove i fascisti mi hanno cacciato per avere scritto un libro3 che hanno ritenuto offensivo. Così per vivere e mantenere i miei quattro figli ho pensato di scrivere romanzi, poesie, novelle, favole, libri e articoli sui giornali». Poi guardandomi, questa volta, con più severità aggiunse: «Tu però mi devi chiamare semplicemente cugino. Ricordo sempre la tua nonna materna, l’indimenticabile cugina Cristina Perri, che aveva sposato Guerino Passarelli, ma che, purtroppo, tu non hai potuto conoscere in quanto è morta molto giovane. Ed era una donna e una mamma (aveva quattro figli Ferdinando, Elisabetta, Luigi e Rosina4) bella, virtuosa e straordinaria».

Mi prese discretamente per un braccio e mi disse se potevo accompagnarlo a fare una passeggiata, ché quella era l’ora giusta per sgranchirsi un poco le gambe e la mente. I miei primi passi sembravano poggiare nel vuoto per l’emozione, man mano che acquisivo cognizione di quale grande e illustre persona avessi al mio fianco. Passo dopo passo arrivammo fora a Guardia, un luogo incantevole, da dove si poteva ammirare tutta la vallata: dai castagneti e querceti di Varraru fino alla foce delle fiumare Careri e Bonamico, e il mare di Bovalino.

A quel tempo sul cocuzzolo di quella collinetta della Guardia, chiamata così forse perché sembrava un baluardo a protezione di Careri e da dove si poteva avvistare ogni possibile avvicinamento al paese, era stata costruita una grande e artistica croce in ferro battuto che poggiava su un grande basamento con decori in cemento armato e sulla facciata, a facci-vista, vi era scritta una epigrafe in ricordo delle missioni. Egli si fermò e lesse con attenzione ciò che era scritto e l’appuntò su una agendina che aveva in tasca. Poi si mise ad ammirare quello stupendo e incomparabile panorama.

Intanto aveva raccolto un ramo di quercia a forma di bastone. Il suo sguardo si posò alla sua destra e guardò perplesso il costone Favata sul quale si erigeva la parte a sud-ovest di Careri dove era sita la Rugarandi, una delle più importanti vie del paese, che aveva, nonostante tutto, resistito ad alluvioni, terremoti e intemperie di ogni sorta5. Poi, puntando sempre la zona guardata con la punta del bastone di ramo di quercia, ripetè assorto e come pensando a voce alta: «Quattru cerzi, oh! Grappidà6, Panduri! Panduri! Panduri7! U trappitu i don Stefanu, Natili novu e u vecchiu, ancora fortemente e testardamente ancorato ai piedi dell’Aspromonte e Platì».

La punta del suo bastone vibrò ancora più forte quando puntò quella magica ed indescrivibile, naturale e artistica roccia di Pietra Kappa, più misteriosa e superba di come se fosse nata dallo scalpello di Michelangelo o del Bernini. Mi sembrava che egli si fosse volatizzato dalla realtà e mi ero preoccupato e cercai di distoglierlo ma egli mi fece appena cenno, appoggiando la punta del bastone verso terra, che tutto andava bene e voleva solo pensare e riflettere.

Dall’Aspromonte cominciava a scendere, come accompagnata da una dolce musica ovattata da flebili suoni emessi da organetti e ciaramelle, una lieve brezza; ma Francesco Perri continuava a mirare le cime verdi degli abeti e dei faggi d’Aspromonte che danzavano al vento, come se volesse portare via con sé quell’alito di aria fresca, e la sua figura si elevava con imponenza con quel bastone di quercia in mano, che agitava come fosse la bacchetta del direttore di una grandissima orchestra, mentre osservava e puntava la fiumara Careri, le terre di Ancuni, Carrusu, Angelica, Macrolis e la Forestola.

Quelle terre baronali che i pandurioti tentarono di conquistare ed occupare e che tali fatti egli descrisse in Emigranti, pagine di estrema e forte bellezza e sublime narrativa. Ed ancora il suo sguardo si posò sulla parte vecchia del paese di San Luca, che da lontano sembrava un calvario e un presepe contestualmente, e forse cercava di individuare la strada (mulattiera) che aveva condotto i suoi personaggi (le famiglie dei Blefari, i Passarelli, i Varvaro, i Musolino, i Linarello, i Papandrea, i Callipari, i Cataldo; Nino Sperlì, mastro Genio, il maestro Michelino Fazzolari, il Sindaco ecc.) in pellegrinaggio alla Santissima Madonna di Polsi, nel cuore palpitante dell’Aspromonte, e che aveva descritto in altre pagine epiche e pionieristiche di letteratura universale quale, senza ombra di dubbio, può essere considerato il suo capolavoro Emigranti. Infine, egli guardò verso il mare azzurro della marina di Bovalino, nel quale immaginava navigare il bastimento che aveva costretto, dopo il fallimento della conquista delle terre baronali, la migliore e più forte gioventù di Careri, come uccelli migratori, ad emigrare nella lontana e sconosciuta America per cercare un tozzo di pane per sfamare sé stessi e le proprie famiglie.

Io mi racchiusi in un religioso e attonito silenzio, guardai Francesco Perri dal volto triste e pensieroso come fosse uscito da un sogno. Sicuramente da quella posizione privilegiata aveva potuto rivedere, tutti insieme, come su un palcoscenico naturale, i luoghi e i personaggi ai quali aveva dato vita in Emigranti. Riprese fiato e, dopo un attimo, mi tornò a riprendere per il braccio e, guardandomi con amaro e flebile sorriso, esclamò sommessamente: «Oh! Dio mio! Come è possibile che tutto è rimasto com’era a quel tempo e che niente sia cambiato?». «Al di là degli stravolgimenti e degli sconquassi causati dalle alluvioni e dai terremoti!», aggiunse indispettito stringendo ed elevando i pugni a cielo con fierezza come per una sfida, ancora indomito e non rassegnato, pronto a nuove battaglie (continua).

Note al testo

1) Preside di scuola e coraggioso sindaco di Careri;

2) In realtà era direttore di ufficio postale;

3) Il maestoso libro I Conquistatori, la prima e più grande opera letteraria di denuncia contro il fascismo;

4) Mamma del sottoscritto, morta anch’essa in giovanissima età;

5) Successivamente evacuata a seguito dell’alluvione del dicembre 1972;

6) Decritta in altre mirabili pagine di Emigranti mentre viene distrutta dall’alluvione;

7) L’insediamento antico dal quale Careri ha avuto origine legato a leggende mariane (la Madonna delle Grazie).


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