Carmine Tripodi. L'aquila di Castel Ruggero
- Cosimo Sframeli
La lotta si faceva cruenta, quello che sembrava un semplice drappello di uomini, si era ben presto trasformato in una formidabile arma investigativa. I sequestrati cominciavano a collaborare alle indagini, assicurando alla giustizia spietati criminali e loro fiancheggiatori. Ma senza precedenti era la strategia di contrasto del pool antimafia, formatosi tra gli Inquirenti e la Squadra di Polizia Giudiziaria dei Carabinieri di Locri, che riuscì a staccarsi dalla logica del singolo crimine collocandolo nella struttura associativa, compiendo altresì un inedito investigativo, individuando e seguendo i flussi di denaro ricavati dai sequestri che, quando non si perdevano in conti esteri o in attività di riciclaggio, alimentavano il redditizio traffico di sostanze stupefacenti. La ‘ndrangheta, che intuisce la pericolosità e l’incisività della manovra repressiva, alzava la testa ed osservava i propri nemici. Erano pochi e ben visibili, talmente pochi che ognuno di essi rappresentava una fetta della sovranità dello Stato in terra di Calabria, una Istituzione. È in tale contesto che quegli uomini diventano simboli, personificando la ricerca di giustizia, la voglia di riscatto della gente onesta, la reazione dello Stato per la liberazione del più importante degli ostaggi: il popolo calabrese. Ma il simbolo non è solo punto di riferimento di coloro che in esso si identificano, diventa altresì bersaglio per coloro che osteggiano il significato che lo stesso rappresenta. Tanti sono i motivi che possono aver spinto la ‘ndrangheta ad uccidere il Brigadiere Carmine Tripodi, ma tutti confluiscono in un’unica causa: la ‘ndrangheta voleva arrestare il fiume investigativo ormai in piena e senza controllo. La ‘ndrangheta non uccide il Brigadiere Carmine Tripodi soltanto per tutti i suoi sforzi e successi che in pochi anni lo hanno visto protagonista nelle indagini per il sequestro di Giuliano Ravizza, dell’ingegnere Carlo De Feo e nella cattura di latitanti, la ‘ndrangheta uccide il Comandante della Stazione Carabinieri di San Luca, colpendo proprio l’Arma, perché – in quel paese dove tutto ha avuto origine – gli ‘ndranghetisti hanno da sempre riconosciuto nel Carabiniere il loro naturale antagonista. Uomo, Carabiniere e simbolo si fondono, non si può abbattere l’uno senza annientare il resto. Per questo è morto Carmine Tripodi.
CARMINE TRIPODI, dal 1982 Comandante della Stazione dei Carabinieri di San Luca, in quegli anni scuri e violenti, fu impegnato ad arginare l’ondata dei sequestri di persona sui crinali dell’Aspromonte. Riuscì ad assicurare alla giustizia i rapitori dell’ingegnere napoletano Carlo De Feo, tenuto prigioniero per 395 giorni su quelle montagne. Quattro miliardi e quattrocento milioni di lire fu il riscatto pagato. De Feo, una volta libero, decise di collaborare alle indagini e, insieme al G.I. di Napoli Palmieri, ritornò a San Luca. Lì, Tripodi e i suoi Carabinieri, con l’aiuto dell’ex rapito, riuscirono a localizzare otto prigioni, tra le impervie alture ed anfratti dello Scapparrone e dello Zillastro, di Monte Castiglia, Pietra Longa, Pietra Kappa, monoliti che giganteggiano sull’Aspromonte orientale. Verso le 21.00 del 6 febbraio l’agguato, a San Luca, in una doppia curva. Carmine Tripodi cadde sotto il piombo dei killers stringendo nella mano destra la sua pistola d’ordinanza con la quale, in una disperata quanto inutile difesa, sparò ripetutamente contro i suoi assassini cinque colpi, colpendone uno. Venne trovato dai suoi Carabinieri, che scendevano verso la vallata del Buonamico, piegato sul sedile della propria autovettura, mentre impugnava ancora l’arma, col dito indice sul grilletto. L’esecuzione sommaria rappresentò una sfida allo Stato, all’Arma. Significò una frattura traumatica di quella “regola” non scritta, ma bene impressa nel cuore e nella mente di ognuno, che sanciva di “rispettare” i Carabinieri in quanto avrebbe portato male a tutti e disgrazie alle famiglie sparare su un rappresentante dell’Ordine.
L’OMICIDIO DEL BRIGADIERE fu organizzato e portato a termine da gruppi criminali della ‘ndrangheta per dare una dimostrazione del proprio “prestigio” nel momento in cui il valoroso sottufficiale aveva chiuso con le investigazioni sulle cosche locali ed era già stato trasferito a Santa Caterina sullo Jonio, dove lo aspettavano per lunedì 11 febbraio. Altresì, ci fu il tentativo di intimidire e debellare quel manipolo di investigatori impegnati a Locri, Magistrati e Carabinieri, che non si erano limitati a sognare un mondo migliore ma erano andati a cercarlo e sfidarlo. Luciana aveva 21 anni ed era fidanzata a Carmine. Rimase un giorno aggrappata alla bara del giovane Brigadiere che aveva conosciuto quattro anni prima a Bianco. Il primo ed un grande amore, le nozze fissate, i mobili acquistati, la casa pronta per essere vissuta a Santa Caterina sullo Jonio. Mancava soltanto il matrimonio che era stato fissato per il successivo mese di marzo. Al polso continua a portare l’orologio del fidanzato. Sul luogo dell’agguato, sempre Luciana, fece costruire una lapide con una fotografia. Aveva scritto lei le parole incise sulla lastra di marmo. I fiori non mancarono mai, a tutt’oggi, anche quelli di prato che crescono sulla vicina collina. I Carabinieri, che transitavano, sostavano per una preghiera e per ripulire la lapide. Erano gli stessi che per anni lo avevano seguito con entusiasmo, nel pericolo, volando più in alto delle aquile e mostrandosi più rapidi dei falchi, tra le montagne, nel cuore dell’Aspromonte, dove, insieme al loro Comandante, avevano sentito il respiro dell’Eterno.
6 FEBBRAIO 1985, A SAN LUCA GRIDA LA LUPARA
BRIGADIERE CARMINE TRIPODI!
Carmine (nella foto a destra), 25 anni, di Castel Ruggero, piccola frazione di Torre Orsaia (Salerno), ucciso in un agguato mafioso, a colpi di lupara, a San Luca, il 6 febbraio del 1985, sulla strada provinciale, ad un anno della sua morte, venne decorato di Medaglia d’Oro al Valor Militare alla Memoria. “Comandante di Stazione – dice la motivazione – già distintosi in precedenti operazioni di servizio contro agguerrite cosche mafiose, conduceva prolungate, complesse e rischiose indagini che portavano all’arresto di numerosi temibili associati ad organizzazioni criminose, responsabili di gravissimi delitti. Fatto segno a colpi di fucile da parte di almeno tre malviventi, sebbene mortalmente ferito, trovava la forza di reagire al proditorio agguato riuscendo a colpirne uno, dileguatosi poi con i complici. Esempio di elette virtù militari e di dedizione al servizio spinto fino al sacrificio della vita”.