Cartolina aspromontana. Costera, la favola della mia vita
- Antonio Strangio
Ci credevo quand’ero ragazzo, ci credo ancora oggi che ragazzo più non sono e devo abituarmi a convivere con l’età della ragione e della paura, e ho i capelli grigi, più grigi dei pensieri che mi adombrano. I luoghi dove siamo nati e dove abbiamo trascorso l’infanzia, i posti dove siamo cresciuti, l’età felice, lo scrigno magico nel quale conserviamo tutte le cose belle e care, non ci lasciano mai. Con noi camminano dovunque andiamo, e dovunque andiamo ci aiutano a non morire, a sopravvivere. Hanno le stimmate delle ferite, che non si rimarginano per ricordarci sempre qualcosa. Un segno, un colore, un respiro, un volto, un sorriso e, perché no, anche una lacrima. É davvero così. E questo mi succede ogni volta che visito il paese vecchio, il paese dell’anima e della memoria, dal quale sono stato costretto a fuggire come un ladro dispettoso, una notte di tanti anni fa.
Era il mese di gennaio del 1973 e l’abbondante e fitta pioggia caduta su tutta la Calabria e San Luca, durata più di quaranta giorni, fece scoppiare le vecchie case di muro e implodere la montagna di Saracinò che all’improvviso si svegliò, gonfiò la pancia da far paura, prima di rotolare lungo la costa che copriva le vecchie case. Fuggimmo tutti, anche quelli che un riparo altrove sapevano di non averlo, e quei pochi che ebbero la forza e il coraggio di resistere furono costretti a fare i conti con una realtà amara e piena di paure. Il paese rimase solo, come un ovile al tempo della transumanza, le case ferite con le bocche aperte, spalancate, finirono nelle grinfie dell’erba gramigna, del fico selvatico e della nepetella, e cominciarono a morire. Nel frattempo prese piede una nuova figura di uomo che tale non era: il Vandalo, quello che approfitta delle disgrazie altrui per strapparti il cuore, e quel poco che è ancora rimasto in piedi. E per colpa del Vandalo, nel giro di pochi anni, il paese al di là della casa di Alvaro assunse le sembianze e il volto di un moribondo, sul quale le ferite e le offese non sembrano avere più misura, malgrado, prima il parroco del paese, e successivamente la Fondazione Alvaro, in tempi non sospetti lanciarono un messaggio forte e chiaro, nel tentativo di salvare il salvabile e trasformare il vecchio borgo in un paese albergo.
Nonostante tutto questo, per me che non ho più vent’anni, ogni occasione è buona per ritornare a calpestare le vecchie rughe dove sono nato e cresciuto e dove ho conosciuto e imparato ad apprezzare figure come quella del capigliaro, un venditore ambulante sui generis che in cambio dei capelli delle nostre madri, nascosti a ciocche nei buchi dei muri delle case, ci regalò il primo Santos (pallone) e tutto quello che alle nostre madri e alle nostre case poteva servire. Il piasciaru che attaccava la nzelicatacon una cassetta di sarde sulla quale le mosche facevano la guerra, e fino a quando non li vendeva tutte non se ne andava via. Mia madre, che comprava non più di una libbra porgendogli un piattino smaltato o di plastica, e la vicina, che gli domandava se era possibile avere soltanto le teste, con le quali avrebbe fatto il sugo al suo uomo che a sera sarebbe rientrato dalla montagna, e un bel piatto di pasta caldo lo avrebbe gradito sicuramente. La processione dei santi, le donne che si battevano il petto e che alle statue bardate di nastri rossi, ai quali venivano appese le offerte votive, dedicavano incomprensibili discorsi, le nonne sedute sui gradini delle porte intente a carminare la lana, qualche altra che si riempiva il naso di una polverina grigia e poi, gli occhi al sole, starnutiva e si sentiva felice, qualche altra ancora che teneva fra le gambe la bambina spettinata, e con un pettine sottile – un radar vecchia maniera – cercava di liberarle la testa e i capelli dai pidocchi che l’avevano invasa e non la facevano dormire.
Penso a tutto questo quando attraverso quei vicoli cadenti e pericolosi, dove i calcinacci, la miseria e l’incuria vivono e fanno paura. Dove l’erba gramigna ha costruito il suo regno e sui davanzali delle vecchie case sventrate, non più dimore, addirittura è comparsa la pianta del ficandiano. Segni di una natura che non muore mai, e che in questi casi diventa la vita che non c’è. Il mio mondo, il mio teatro, dove ognuno poteva recitare a soggetto, e dove, come scriveva Alvaro, la vita era così bella che la notte non dormivo aspettando il giorno che doveva venire. Quello stesso Alvaro che in uno dei suoi racconti più belli, per non dire uno dei più belli del Novecento italiano, Ritratto di Melusina, descrive quello scempio e quell’abbandono che molti anni dopo ci ritroviamo per filo e per segno, all’indomani della famosa e triste alluvione del ‘73.
Scrive Alvaro: «Il paese abbandonato intorno si sfascia rapidamente, le piazze e le strade deserte sono amplificate dai meandri che si aprono nelle case crollanti, di dove hanno portato via le porte e le finestre, gli ammattonati e le tegole. Crollano a ogni pioggia, con un polverio minuto, i tetti e i pavimenti nelle cucine e nelle stalle. Tutto è divenuto bianco come se i respiri e le parole trascorse fossero raggelati e incanutiti nell’aria. Vi cresce solo l’ortica troppo densa. La nicchia scavata nel muro per posarvi il lume e il corpo dell’olio e del vino e la fiaccola di resina, è ripulita dal sole e dal vento, e la macchia d’unto scompare dalla pietra, e le crepature fanno una rete di varici intorno alla fabbrica. Le piante erratiche si sono rifugiate sulle creste dei muri liberati dai tetti, sulle finestre vane, sui davanzali crollanti, che nutriscono della loro midolla il fico selvatico, e il boccaleone, e le spighe di segala. E i focolari spenti vi sono, e i consunti scalini alla porta dove l’acqua delle piogge stagna sull’antica orma dell’uomo che li ha scavati passando, e le scale monotone che precipitano dalla sommità come prese dalla vertigine della solitudine». Certo non è più il paese di Melusina, perché Melusina è morta, sparita via senza disturbare, perché oggi sarebbe davvero un miracolo trovare un’adolescente timorosa di sedersi sullo scalino di casa e, come Melusina, restia a farsi fotografare dal forestiero venuto da lontano, perché quell’uomo solo, che parla a fatica e a fatica si fa capire, fotografandola le ruberebbe l’anima, dopo averla posseduta.
I selfie, che sono peggio di una malattia contagiosa, hanno allontanato anni luce questa figura minuta e bella, malinconicamente bella, uscita dalla penna, ma io aggiungerei dal cuore, di un uomo e di uno scrittore che amava il suo paese e la sua gente di un amore viscerale. Quell’uomo ci ha lasciato segni e sogni che noi non siamo ancora riusciti a decifrare. Penso a tutte queste cose mentre attraverso la piccola piazza della chiesuola, dove a parte l’interminabile discorso dell’acqua, una fontana che parla da sola, nel silenzio di un ambiente senza più colori, un rigagnolo che disegna sulla nuda pietra una ferita sulla quale è possibile scorgere i semi verdi della nepetella e della gramigna, non esiste più nulla, a parte i muri scrostati della vecchia putiga, la cui scritta si legge a fatica, come a fatica si riesce a capire che un tempo non molto lontano in quel tugurio ora pieno di sterco, calcinacci e vecchi cartoni inumiditi, uomini con la barba lunga, tracannavano bicchieri di vino con la gassosa. E più bevevano e più sentivano il bisogno di accompagnare quell’acqua rossa, che stordiva i pensieri e le fatiche, con sarde salate e pezzi di pane raffermo, mentre la vecchia padrona, a donna Micuzza, sonnecchiava su una sedia di vimini, vecchia più della sua stessa persona.
Divagazioni, coriandoli di un tempo andato, come le donne che sedevano sull’uscio di casa e allungavano le gambe che mai avevano indossato scarpe o altre cose simili, e all’altezza delle caviglie facevano sedere il bambino suo o della vicina di casa per fargli fare i bisognini. La vicina che chiedeva in prestito un pizzico di sale, quell’altra che portava in dono il pane caldo appena sfornato e la cugliura per la bambina e l’angioleglio per il bambino. Scene di un mondo ormai scomparso, sul quale il sipario, purtroppo, è calato da un pezzo, anche perché il Vandalo è riuscito a portarsi via quel poco che aveva resistito alla furia del maltempo: un balcone, le tegole, una finestra decorata coi fiori, qualche porta più resistente delle altre e addirittura i mattoni.
Ecco perché ci ritorno quando posso, e ogni occasione è buona per accarezzare e ammirare i muri scrostati che sanguinano polvere, i luoghi dove ho coltivato la fantasia per raccogliere colori e poi ripiantare quella vita che non è più. La mia vita, la mia favola.