Cartolina aspromontana. Vi scrivo del mio Aspromonte
- Antonio Strangio
Conosco l’Aspromonte da quando sono nato. Non nel senso che mia madre mi abbia partorito sulla grande montagna, questo no, ma sicuramente là dove iniziano le sue particolari pendici; perché sono nato in casa, sotto la stretta sorveglianza di una signora avanti negli anni e molto grassa, alta, con un testone sul quale faceva bella mostra una chioma nera arruffata, una sorta di cespuglio nel quale si poteva nascondere di tutto, e due occhi che la rendevano ancora più grande e misteriosa. Tutti la chiamavamo levatrice, oggi meglio conosciuta con il nome di ostetrica.
Sull’Aspromonte e i suoi infiniti misteri, le sue tante leggende e le tante verità che rendono più forti e veri gli uomini, e in particolare i pastori d’Aspromonte, ci sono andato subito, appena emesso il primo vagito, ed ero stato avvolto in una pezza, ricavata strappando una striscia di lenzuolo dato che ancora non erano stati inventati i pannolini; perché uno che nasce a San Luca, una volta venuto al mondo, deve, tra le prime cose, fare una visita al santuario di Polsi, dove, maestosa e bella, ci aspetta, con tutta la pazienza di mamma, la regina dei monti, la madre delle nostre madri, quindi anche la nostra: la Madonna di Polsi.
Mia madre era solita raccontarmi, nelle lunghe sere invernali degli anni ‘60, quando in paese le televisioni si contavano sul palmo di una mano, che salii a Polsi, la prima volta, a dorso di mulo, o meglio, sistemato in una delle due capienti gerle che venivano attaccate ai fianchi dei muli, e nelle quali vi trovavano posto la biancheria, la roba da mangiare, le persone più anziane, gli ammalati e i bambini. Non so se lungo il viaggio che iniziava alle tre del mattino mi lamentai. Mia madre dice che sembravo felice e guardavo sempre in alto dove il cielo è più bello e azzurro, fino a quando non mi addormentavo con la testa penzoloni, tutta da un lato.
Fu quella la prima volta che vidi l’Aspromonte, il mio Aspromonte, e presi confidenza con i suoi tanti tesori, il bianco e l’azzurro delle pietre levigate della fiumara del Bonamico, accarezzate dalla limpida acqua, il profumo unico ed intenso della ginestra e dell’erica, dei tamerici e del cardo mariano, degli oleandri che tanto entusiasmarono il gentiluomo inglese Edward Lear, in visita nella nostra terra. Conobbi la maestosità delle Grandi Pietre (il lago non si era ancora formato) e infine, ma non per questo ultimo, il santuario di Polsi. Cartoline aspromontane che nel tempo sono diventate parte di me stesso, perché ho preso a visitarle meglio, a conoscerle meglio, fino a non poterne fare più a meno.
Sono passati più di trent’anni e sull’Aspromonte, zona orientale, ci continuo a salire con cadenza impressionante, anche perché, nel frattempo, esso è diventato la mia officina. E ora posso dire, finalmente, di conoscerlo davvero, anche se la montagna aspromontana è piena di sorprese a ogni nuovo giorno. Uno scrigno magico di rara bellezza. E pur rifiutandomi d’imparare a fare le trappole per prendere i ghiri, un vizio che richiede arte e mestiere, in compenso ho imparato a riconoscere palmo dopo palmo, felce dopo felce, leccio dopo leccio, faggio dopo faggio, abete dopo abete, ginestra dopo ginestra, il profumo degli dei, e sempre sotto la stretta sorveglianza delle Grandi Pietre. Un paesaggio di grande effetto e suggestione che contribuisce non poco ad ingigantire il mistero e la maestosità di tutto il massiccio aspromontano.
Sono molte le date che lo riguardano, ma forse una delle più importanti è quella del 1994, quando mani e menti occulte lo arrestano e lo mettono sotto vetro. Gente senza cuore e senza scrupoli, che non hai mai avuto la fortuna di calpestarne la terra, accarezzare e sentire il profumo delle sue foglie, il canto e il lamento degli animali che lo abitano, o ammirarne i suoi tramonti e le sue albe. Lo hanno chiuso in un recinto e sezionato, trasformandolo così in una scatola vuota che più vuota non si può.
A Polsi, poi, ho vissuto la mia favola, quella che mi accompagnerà per tutto il resto della vita. Una favola antica della quale riesco ancora a sentire il profumo, e anche i miei figli stanno rivivendo quella storia bellissima; una pellicola a colori, la loro, la mia era in bianco e nero. Perché Polsi e la sua storia, Polsi e la sua festa, Polsi e la sua Madonna, rappresentano la vera essenza della vita, quella che ti fa stare bene con te stesso e gli altri, e ti avvicina di più a Dio.
Oggi non ci vado più a dorso di mulo, ma a schiatta fegato, cioè a piedi, costeggiando le straordinarie bellezze del vecchio sentiero che si lascia alle spalle i resti dell’antica Potamia, costeggia quello che fu il lago di San Costantino, meglio noto come lago degli Oleandri, prende di petto la salita di Panza, mentre il sole ti cucina le spalle e le ossa, e poi entra nella penombra della Mancusadove si sente più vicino il santuario, i cui distanti rumori si fanno sempre più incessanti ad ogni nuovo passo. Ci salgo pure in macchina, cavalcando la vecchia pista che s’inerpica lungo i crinali di Farnia e Cano o quella più breve, la San Maria-Menti, dura come un colpo di fucile e più intrigante.
Piste polverose che oggi non sembrano più vecchie ferite che squarciano i fianchi delle montagne, perché l’opera incessante del nuovo Superiore (un sanluchese che sembra essere stato caricato a batterie e, a tal proposito, ha pure minacciato d’incatenarsi), un giovane che è anche il primo Superiore di Polsi nato a cresciuto all’ombra del vecchio paese tanto caro a Corrado Alvaro, ha restituito a Polsi e di riflesso alla sua mitica montagna della quale il santuario costituisce il cuore pulsante, tutto quello che in passato gli era stato negato a colpi di chiacchiere che non costano un bel nulla, e da tante leggende metropolitane.
A Polsi si sale ai primi di maggio, quando il profumo dei fiori ti fa assaporare l’eterna giovinezza e il cielo ha il colore delle favole antiche. Per cinque mesi, da maggio a settembre, tempo permettendo, è un andirivieni di pellegrini e di macchine, una infinita teoria umana che al santuario si reca per rendere omaggio alla regina dei monti, detta anche del “Divin pastore”, perché la sua storia inizia grazie al ritrovamento di una croce in ferro battuto, riportata in superficie da un giovane toro che si era smarrito, e al quale un giovane pastore di nome Italiano, nativo di Santa Cristina, dava la caccia da più di tre giorni. Era il lontano 1144. É il profumo della leggenda questo raccontare che attribuisce pure al conte Ruggero il ritrovamento della croce. Sta di fatto che conte o pastore, torello o muta di cani, all’origine del pio luogo, definito il piccolo San Bernardo della Calabria, c’è sicuramente il ritrovamento di una croce, custodita oggi in una teca d’argento e portata in processione ogni anno il 14 settembre, giusto due settimane dopo la grande festa del 2 settembre.
A distanza di tanti secoli non solo il santuario resiste ma, da quando vi è stata portata una statua in pietra tufacea che pesa circa otto quintali, frutto del lavoro di un anonimo scalpellino della scuola di Siracusa, il vecchio monastero è cresciuto a vista d’occhio e nel tempo è diventato il centro dove meglio si predica e si pratica la forza e la bellezza della pietà popolare.
Una cartolina aspromontana di rara bellezza, così come Pietra Cappa, Pietra Castello, Pietra Lunga, Pietra di Febo, Montalto, le grotte della maga Sibilla. E tutto questo mentre la grande fiumara parla, urla e non abbassa mai la voce. E sarebbe bello capire il linguaggio dell’acqua, decifrare quei rumori che, quando il silenzio avvolge tutto, diventano un interminabile discorso e un messaggio della natura. Uno dei più belli e immediati, forse quello che più di ogni altro ci avvicina a Dio e tutti i suoi grandi e infiniti misteri.