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Chi ha distrutto Casalinuovo?

  •   Rocco Palamara
Casalinuovo Casalinuovo

Casalinuovo, il mio vecchio paese, ora distrutto, svettava gagliardo sul suo cocuzzolo come nido d’aquila sul fianco a nord del Serro di Carrà e con ampia e mirabile visione sull’Aspromonte e la valle dell’Aposcipo.

L’ultima volta che lo vidi era intatto e non furono, perciò, le offese del tempo a consumare i tetti di tegole rosse e le vecchie e care mura del paese.

Non c’erano riusciti i terremoti ad abbatterle e neanche la furia dell’alluvione del 1951 che servì da scusa per abbandonarlo, ma alla quale aveva ben resistito. Furono invece gli ultimissimi suoi abitanti, quattro ignoranti di crapari, a distruggerlo. Altri ancora, che pur potendo (e dovendo) non fecero nulla per fermarli, dovrebbero vergognarsi almeno quanto quelli.

Per tutti gli anni ‘50 e ‘60 il paese continuò ad essere abitato da molte decine di famiglie e con persino l’ufficio postale, la caserma dei carabinieri e la chiesa funzionanti. Con sempre meno gente restò indenne anche nel decennio successivo e fino al 1983, quando le ultime famiglie perbene se ne andarono a raggiungere le altre ad Africo nuovo e l’ufficio postale fu chiuso.

Rimasto nelle mani dei caprari, questi lo trattarono come fosse esso stesso (il paese) una capra da macellare; e lo scarnificarono pezzo per pezzo fino a ridurlo a una carcassa. Lo utilizzarono all’inizio come riserva di legna a cominciare dai mobili rimasti (panche, casciuni, credenze, tavole, madie, tavole di letto e quant’altro) che sottrassero dalle case e bruciarono per non scomodarsi troppo con legna campagnola. Poi toccò a porte, finestre e cardini degli infissi strappandoli con violenza e con l’uso di attrezzi; ed infine agli architravi delle aperture e alle travi e alle assi dei tetti che smurarono e sfondarono di proposito. Non ebbero riguardi né scrupoli. Finito il legname, invece di piantarla lì e rispettare almeno quelle povere e vecchie mura, cariche di storia e di ricordi, si misero ad abbatterle al solo scopo di fare più spazio per le capre e i porci.

L’intero paese fu ridotto a uno stazzo. Usando la ruspa, spianando le case, distruggendo e coprendo il selciato delle rughe, realizzarono un “asse” stradale che sventra e spacca in due quello che resta dell’antico abitato. Ma per fare di peggio spianarono completamente la sommità del paese scavandoci anche una gran fossa per la raccolta dell’acqua piovana e lo sguazzatoio dei porci. Offeso nell’anima e stravolto in tutto, anche la perdita per la cultura è irreparabile la dove svaniscono le scene del celebre fotografo Tino Petrelli e quelle dei racconti di Saverio Strati.

Col paese si perde anche uno dei rarissimi esempi di centro urbano di solo liberi contadini coerente in tutto e per tutto a una comunità senza classi. Per ulteriore sfregio e colmo d’arroganza al centro della bella e ampia piazza ci piantarono una grossa abitazione in cemento armato che tutt’oggi incombe e sussiste per la vergogna di tutti. Ogni cosa senza che uno straccio di autorità muovesse un dito. Nulla videro e nulla seppero neanche gli acculturati sindaci comunisti (e non) di Africo nuovo che se ne fregarono altamente o non furono capaci.

Cos’è un sindaco? Cos’è un porcaro? Direbbe allora il grande Giorgio Gaber.


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