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  •   Antonio Zema
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Fu la pioggia che lo Scirocco sbatteva sulla finestra a scuotere la mia solitudine. Decisi: quella era la notte giusta. Prima di uscire bevvi un caffè forte e amaro. Amaro come il profumo che quella notte si respirava. Amaro come le arance selvatiche che il vento, col suo fischio lugubre, faceva rotolare sul trifoglio bagnato. E lugubre era il canto delle civette che nelle notti scandiva il tempo della vallata.

Il cielo nero come l’inchiostro si specchiava sul selciato lucido. Lucido come i miei occhi tristi. Tremavano al mio passare gli infissi delle povere case, come le mie gambe verso quell’improbabile meta.

Imponente, ai margini del paese, mi apparve la casa di Olimpia, anche se non lo era. Imponente come la montagna che le stava alle spalle: una catena nera quella notte. Da Campolico a Capo Zeffirio sembrava un tutt’uno che diventava trampolino da dove la disperazione millenaria di questa terra si tuffava nello ionio nero. Come l’inchiostro.

Ed imponente pur essendo una minuscola donna mi apparve donna Cora. Così era conosciuta Olimpia. Dai lineamenti antichi e misteriosi, che sembrava dovesse reggere sulle sue spalle il dolore antico della contrada. «Entra, ti aspettavo». Era dolce il profumo di quella stanza. Dolce come le arance che la donnina stava mangiando. «Sto male donna Cora».

«Siediti conosco il tuo dolore».

Era amaro il fumo della candela che teneva in mano. Amaro come la mia bocca, amaro come i miei pensieri, amaro come la paura. «Lo vedo, è un male potente. Vecchio».

Già, vecchio. Così sentivo anche il mio mondo, ostinato nel guardarsi alle spalle, ché avanti vedeva l’ignoto. Così era anche la croce, che segnavano le sue dita, schiave del cicalio che le usciva dalle labbra.

«Tre padre nostro figlio mio». E le gocce d’olio che faceva cadere nell’acqua del piatto si scioglievano misteriosamente, e con esse le mie paure. Perse nel blu profondo dei suoi occhi che frugavano nei miei.

«Ombra, ombra fatti accanto». E le gocce galleggiavano leggere sull’acqua, ed era leggera la mia mente quando varcato la porta ritornai al vento della notte. Forse era solo un principio della fisica l’olio che si disintegrava e poi si ricomponeva nel piatto.  Però stavo meglio e mi apparve più breve il ritorno.

Fu per questo che rallentai il passo. Temevo il ritorno, il rientro. Temevo il canto della civetta, la solitudine.

Antonio Zema


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