G. entrò in carcere per una ragazzata, e la galera uccise la sua onestà
- Antonio Calabrò
G. entrò in galera, per la prima volta, più di trent’anni fa. Si fumava le canne, venne beccato ad un posto di blocco con una certa quantità di marijuana, centomila lire dell’epoca, quindi interrogato e messo sotto chiave per un mese circa. Fu la sua prima permanenza a San Pietro. Era di famiglia molto modesta, e gli avvocati d’ufficio non riuscirono a dimostrare l’uso personale della droga rinvenuta. Rinviato a giudizio, condannato per spaccio con pena sospesa. Quella prima volta lo marchiò più della sua fotografia stampata sul giornale, come si trattasse di Vallanzasca. Il carcere gli aprì la porta della sopravvivenza estrema, della difesa a suon di pugni e schiaffi, del rispetto verso criminali incalliti, delle regole primitive della violenza. G. uscì dal carcere affamato di vendetta. Nulla poteva fargli più paura.
NON PASSARONO due anni che ci tornò, questa volta accusato di rissa, aggressione, resistenza e ingiurie a pubblico ufficiale. Un caratterino, G, certo. Ma nella sua mente debole si era insinuata l’idea che i nemici fossero quelli che l’avevano sbattuto in quel luogo infernale. Condannato, scontò primo e secondo reato. Permanenza lunga, in vacanza dietro le sbarre di tanti istituti di pena italiani. Passò l’inferno, è sicuro, in quel periodo. E ne uscì ben deciso a non tornarci mai più. Ma non per un suo pentimento. Il carcere incarognisce, rende furbi, e anche quando piega difficilmente spinge al pentimento. Il carcere dovrebbe rieducare, ma non fu così: G. tornò spesso dietro le sbarre, sempre per reati di piccola entità, ma soprattutto per la sua incapacità a reinserirsi nei circuiti della normalità.
PROSSIMO AI cinquant’anni, finalmente libero, G. venne accolto da una comunità dedita al recupero degli sbandati: generosi volontari ancora fiduciosi nell’essere umano. Ma G. viene nuovamente arrestato, ancora per traffico di stupefacenti, qualche tempo fa. La sua vita ormai è segnata. Eppure a ricordarlo come era, trent’anni fa, nessuno lo avrebbe detto. Esuberante, certo, ma affatto malvagio; anzi di buon cuore, spiritoso e persino romantico.
IL CARCERE oggi è una coltivazione in serra di delinquenti e disadattati, un modificatore genetico di personalità, il mondo terribile della forza bruta e delle regole criminali. Sovraffollato, senza pietà e senza speranza, forma nemici dell’umanità, entrati magari con un torto perpetuato da scontare e usciti con mille ingiustizie da vendicare. Il carcere è nemico del consesso umano, è l’ultimo rifugio dell’applicazione della legge, è il buco nero della civiltà, un buco nero necessario, certo, come necessarie sono le fogne, ma resta comunque una perenne fonte di dolore, di crudeltà e di morte dell’individuo. Il carcere non è equo, non è neanche giusto; non è uguale per tutti, distingue tra ricchi e poveri, il carcere è la fiera applicata del pregiudizio, oltre che la messa cantata del grande crimine organizzato. La galera non è una barzelletta; la galera è dura, sporca, terrificante. C’è chi la merita ampiamente, penseranno alcuni; e magari hanno anche ragione; ma ce l’hanno soltanto nel momento in cui ammettono che il loro è un ragionamento ispirato da quel sentimento, decisamente umano, che è la vendetta.
TRA GIUSTIZIA e vendetta il carcere annulla le differenze. Il desiderio di vedere soddisfatta la propria bramosia di equilibrio, la fame di sofferenza altrui a parziale sconto della propria, offusca ogni pensiero razionale e la meta, lontana, di contribuire ad una società “giusta”. Pensiamoci tutti, quando esultiamo di fronte ad una condanna alla galera. E al posto di ricordare soltanto chi questa condanna la meriti ampiamente, pensiamo pure a G. entrato in carcere per una ragazzata e il giorno dopo morto per sempre alla vita degli onesti.
Antonio Calabrò