Il diavolo e il santaro
- Rocco Palamara
Prima del 1951, il grande palazzo del SEMINARIO si stagliava solitario nella campagna oltre i giardini che costeggiavano il mare e a un chilometro da Bova Marina. Col cangiare dei tempi e il calare delle vocazioni l’edificio smise di sfornare preti e servì alle emergenze abitative: nel 1943 per alloggiare gli sfollati causa i bombardamenti, e nel 1951 gli alluvionati. Per questa seconda e più gravosa emergenza nemmeno le sue numerose stanze bastarono e per cui, nella spianata davanti e ai lati del Palazzo, vennero innalzati filari su filari di baracche per un vero campo profughi. Data la combinazione,l’insieme del posto era indicato con due nomi: “Il Campo” o “Il Seminario” come il palazzo.
Tra baracche e il grande fabbricato vennero alloggiati circa 300 famiglie casalinovite e una ventina di africote, appartenenti allo stesso Comune.
Uniche famiglie diverse erano quelle di due strani individui che abitavano là da prima del nostro arrivo e che, in quanto non “alluvionati”, erano le sole a non godere della distribuzione di viveri a spese del governo che avveniva ogni giorno nei magazzini del Palazzo.
I due non si integrarono mai con la nostra comunità (cosa difficile per chiunque) , ma neanche si pigliavano fra di loro perché uno era il Diavolo e l’altro il Santaro.
Il Santaroabitava in una stanza accanto ai magazzini, con una moglie minuta e un figlio talmente microcefalo che lo vedevo entrare e uscire dalla finestra attraverso i rombi dell’inferriata. Anche lui (il Santaro) aveva una figura striminzita, che si accordava all’umiltà del suo carattere ma, essendo anche un artista, aveva dell’inquietante per le mie paesane che lo temevano per la sua stupefacente capacità di riprodurre le immagini: dote quasi “magica” attribuita solo a un mago.
Poverissimo, nella sua stanza laboratorio dove abitava non c’erano, o quasi, suppellettili a parte il letto. In compenso però le pareti erano tutte colorate e dipinte con grandi quadri di paesaggi che mi affascinavano moltissimo; e di ritratti, tra cui quello della sua defunta madre, che invece turbavano quanto mai le mie paesane in quanto prova provata che il Santaro – se voleva – poteva rubargli l’immagine anche a loro.
Esse però erano le stesse che gli davano da vivere comprando le statuette dei santi che egli stampava col gesso e colorava; cedendole poi per poche decine di lire o – più spesso – in cambio di pasta, pane e quant’altro che passava l’amministrazione.
L’altro, il Diavolo, abitava poco più in là in una vecchia casetta diroccata ai margini del “campo” e di quello stesso vecchio palazzo. Ed era vecchio anche lui seppure con figli ancora piccoli, dei quali due miei compagni di giochi.
Povero come il Santaro, ma differente sugli altri aspetti, il Diavolo conservava nello sguardo una antica fierezza e un arguzia ammaccata solo dagli acciacchi. Portava lunghi baffi a manubrio e un cappello a falde all’uso di chi teneva a distinguersi per un qualche supposta superiorità intellettuale o per un orgoglioso passato come i mericani.
Quello che fosse era difficile ponderare, perché faceva vita appartata e del suo passato non si sapeva quasi nulla di preciso. Per il presente invece si era certi della sua fiera avversione per le leggi dello Stato, il Governo, la religione e i preti.
Era in realtà di uno degli ultimi esponenti del movimento anarchico calabrese, che era stato forte prima del fascismo ma che era ormai ridotto al lumicino.
Coerente con la sua ideologia, che aborriva i riti e in specie quelli religiosi, conviveva senza essere sposato (nel caso, con una donna non bella ma molto più giovane di lui – la sua terza o quarta “fimmina”, si diceva). E tanto bastava per definirlo un “diavolo” alle mie paesane che nel vincolo matrimoniale trovavano sicurezza e rispetto, e in quell’uomo una cattivo esempio e sorte di minaccia per l’ordinatissimo consesso casalinovita.
In nulla toccati da tale “pericolo”, per i maschi adulti del Campo quello era troppo vecchio, strano e discosto dalla vita sociale per essere considerato un qualche interlocutore e – quel ch’è peggio – visto le misere condizioni lo classificavano più che altro un poveraccio.
Ma il suo MOMENTO di GLORIA giunse quando morì e per il suo funerale si videro arrivare al Seminario un numero inaudito di macchine e di persone forestiere giunti, come per omaggiare un gran signore. Erano i suoi compagni nell’Anarchia giunti per lui da ogni parte.
Sotto gli occhi stupefatti dei miei paesani, se lo portarono via senza croce e senza preti, come gli sarebbe piaciuto e lasciandosi dietro un alone di zolfo e di mistero, come ogni DIAVOLO che si rispetti.