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Il racconto. Dalla valle, la voce di Caterina

  •   Antonella Italiano
Il racconto. Dalla valle, la voce di Caterina

Arrivammo al passo della zita, lungo la strada che da Bova porta ai Campi, e ci fermammo. «Vedi, quella è la valle che inghiottì la povera Caterina. La giovane sposa che preferì morire, piuttosto che sposare un uomo più anziano, scelto dal padre, com’era usanza tra la gente aspromontana»

«Scelto dal padre?»

«L’amore è un lusso troppo grande, quando si combatte ogni giorno con la fame». 

Guardai la stradina su cui, quello strambo corteo nuziale, certo camminava in fila indiana, tanto era stretta e in pendio. Ma in quella natura, calda di sole e vitale, come solo a settembre sa essere, io non ci vidi la morte. Né mi sentii angosciata dal racconto. Leggende, pensai. E andammo avanti.

Campusa, meraviglioso paese che, pur deserto, puzzava di vita, mi chiamava insistente. Misi Maria Vittoria nel sacchetto a tracolla e, approfittando di un momento di distrazione, mi incamminai. Sola non ci potevo andare, ma il cuore mi batteva più forte ad ogni passo e, dagli squarci lasciati apposta dagli alberi, intravedevo l’orizzonte di vette, cielo e, dalla curva, quel rassicurante triangolo di mare. E aria, e spazi aperti, mi chiamavano gioiosi. Ed io non riuscii a fermarmi, andai avanti, avanti, avanti. Fino a Campusa. E lì aspettai il buio, come fosse la nostra coperta. Mia e della bimba. E non vidi pericolo, no. Solo vita.

«Vuoi arrivare davvero fino a là?» «Si, andremo sul pianoro» «A piedi con la neve?». Nessuna risposta, e così partimmo. Ho sempre odiato la neve, e credo che persino la montagna la odi. Non fa vedere nulla, se non sé stessa. Soffoca, gela, distrugge.

Dopo qualche ora di cammino lasciammo lo sterrato, per addentrarci nelle strade che, mi stupisce tuttora, tu seguivi per istinto. Come se fossero le strade principali di una città. «Ma qui non c’era il passo?» «Qui dove? Io vedo solo lo strapiombo» «Ah eccolo, era più su, si era imboscato».

E il passo c’era davvero, dei piccoli sentieri percorsi dalle mucche (credo) dove le piante rappresentavano l’unico appiglio tra noi e il livello del mare.

A pensarci oggi, naturalmente. In quel momento non ci vidi pericolo, neanche il freddo sentii, quando ormai mi si erano inzuppate calze e scarpe. Lontano dalle strade, a diverse ore di cammino da una casa, nel cuore di un bosco così fitto che, se fosse accaduto qualcosa, solo i lupi se ne sarebbero accorti. E con la neve, naturalmente, a tenerci compagnia.

Così, subito dopo l’ultimo angolo, dell’ultimo passo, dell’ultima vetta attraversata, su quel pianoro che tu amavi tanto, la vidi. Come la vedevi tu: uno splendido velo. E la montagna lo portava come Caterina, e appariva più dolce, più pura, come fosse una sposa. «Quello è lo stazzo di un mio parente» «Quelle sono pietre!» «Si, ma sono sistemate in modo concentrico, a disegnare lo stazzo. Ora andiamo lì ad accendere il fuoco».

 

Per vedere lo stazzo ci volle molta fantasia, ma il fuoco era vero, com’era vero che lo accendesti in mezzo alla neve (e allo stazzo), non so con quale arbusto infernale. Restammo così, coi piedi nudi e sospesi, in mezzo ad un curioso cerchio di vecchi massi, immaginando un tetto, ad aspettare che calze e scarpe si asciugassero, e che si riscaldasse il pane.

 

E, al ritorno, pur camminando al buio e pur avendo molta strada da fare, io non vidi il pericolo. Né la morte. Ho amato molto questi posti, con la foga e la rabbia dell’amore reale. Perché ho avuto la fortuna di incontrarti proprio qui, in queste vette che Caterina detestava, perché a lei l’amore fu negato. E la montagna, che tutto aggiusta, se la portò via, per risparmiarle ulteriore dolore.

 

Invece a me disse di cercarti, quando eri lontano, ed io sentii il suo richiamo a chilometri di distanza. E nella notte, sola, su e giù per i tornanti di Pedimpiso, vidi la vita finalmente ricominciare, il dolore finire, e i due cuori che dentro di me faticosamente trascinavo, tornarono a battere vigorosi, un canto in armonia con il canto dell’Aspromonte.

 

Poi un giorno il pianto di Caterina risuonò dalla valle all’improvviso. Un grido che ruppe la magia di una giornata sulla neve «Che c’è Caterina? Che vuoi?».

 

Ghiaccio, la neve divenne ghiaccio sotto le ruote del land rover, un attimo per capirlo, mentre la strada si distorceva e si accorciava all’improvviso. E anche tu divenisti di ghiaccio, come quel lastrone che asfaltava la discesa. Ed io non ebbi fiato per parlare, ché in questi casi neanche si comprende qual è la posta in gioco.

 

Ho sempre odiato la neve, la stessa neve che fu per me complice e compagna, ora si inghiottiva tutto. Perché il dolore è in agguato, e attacca, come le bestie feroci. «Che c’è Caterina? Che vuoi?» ma nessuna risposta arrivò dalla valle, e la montagna bianca, come il velo delle sue tristi spose, quel giorno, mi fece paura.


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