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Il ritratto. Il mio amico Rocco

  •   Domenico Luppino
Il ritratto. Il mio amico Rocco

Veniva puntuale ogni anno a chiedermi la stessa cortesia. C’era un piccolo uliveto di proprietà della mia famiglia, che noi chiamavamo i vintiquattru pedi (ventiquattro alberi d’ulivo). Rocco era confinante con il suo altrettanto piccolo uliveto e pareva naturale, sia a lui che a me, che i frutti del mio piccolo uliveto li raccogliesse lui.Era troppo disagevole per me condurre sul posto operai, mezzi ed attrezzature per nemmeno un’ora di lavoro. Meglio ne avesse bene lui, come prima di lui ne aveva avuto bene suo padre. Erano persone oneste e laboriose. Lo erano sempre stati, Rocco e la sua famiglia.

LA SUA VISITA, ogni anno, era più una formalità, sia per me che per lui, che non altro. Dal canto mio era anche un’occasione piacevole. Gira e rigira, prima di arrivare al dunque della visita, si finiva per parlare di politica. Ancora di più a rimpiangere il partito che non esisteva più. Qua e là, Rocco non mancava di accennare a qualche gnuri (signore) del passato e faceva l’espressione compiaciuta nel ricordare quante volte li avevano bastonati alle amministrative. Quasi sempre concludeva il suo discorso con una frase o una parabola che aveva detto il prof. Misitano. Mi piaceva ascoltarlo, perché mi aiutava a compiere delle acrobazie malinconiche, immaginando una realtà paesana migliore che, forse, non c’era mai stata. Dopo avere ricevuto il mio formale sì, Rocco se ne andava. Ed io sapevo che avrei potuto rivederlo per Natale o per Pasqua, quando mi avrebbe portato un regalo.

NON SAPEVO nemmeno che la figlia di Rocco si fosse fidanzata. Lo seppi quando era pronta, assieme al suo promesso sposo, per andare all’altare. Era il periodo in cui lo Stato, per scaricarsi la coscienza, mi aveva dotato di due uomini di scorta. Per quindici giorni a testa, una volta i carabinieri e una volta la polizia. Non ero più sindaco, ma per un certo periodo continuarono a darmi una scorta. Stavo tornando chissà da dove ed ero fermo in attesa che si aprisse il cancello elettrico delle mia azienda. Quando, lungo la strada, vedo venire Rocco e un’altra persona. Era insolito vedere Rocco camminare per le strade del paese, era insolito a quell’ora ed era altrettanto insolito vederlo in compagnia dell’altro. Notai, però, che entrambi avevano in mano un mazzo di buste da lettere in mano. Capii immediatamente che erano le buste che si usano per i matrimoni. Non ci fu bisogno d’altro, capii di cosa si trattasse. I due, che per età e per mancanza di parentela non potevano essere che i sumpesseri (consuoceri ), stavano facendo il giro dei compaesani per invitarli al prossimo matrimonio. Visto che erano oramai a pochi metri da me, mi attardai prima di entrare con l’auto all’interno dell’azienda. Per me, che come al solito avevo capito poco, era certo che si sarebbero fermati per darmi l’invito. Invece, i due passarono oltre.

LE COSE CHE mi colpirono furono più di una. La prima, quella di essere rimasto come un fesso ad aspettare l’invito ad un matrimonio, io che detesto i matrimoni; la seconda, di essermi offeso perché ero stato saltato a piè pari e, dunque, di essermi sentito offeso; la terza, ma non per importanza, di avere visto nel viso di Rocco un’espressione che io non gli avevo mai vista. Passarono accanto alla mia auto, mi salutarono e non aggiunsero altro. Successivamente, mi informai di come era stato il matrimonio della figlia di Rocco, di quante persone del paese erano state invitate e quant’altro. Le notizie che ricevetti confermarono ciò che temevo: non mi avevano invitato deliberatamente. Passò il tempo e mi ero ripromesso che di questa cosa non ne avrei parlato, tanto meno con Rocco. A dire il vero, speravo che non venisse più a chiedermi nulla. Speravo che quel ghigno che gli avevo visto quel giorno fosse un segno di cambiamento che, di certo, lo avrebbe condotto a non volere più contatti con me.

MI SBAGLIAVO! Come ogni anno Rocco si presentò. La cosa che più mi dava fastidio è che me lo ritrovai davanti con gli stessi modi di sempre. Come se quella volta avesse agito sotto l’effetto di una droga. La mia resistenza durò meno di pochi attimi ed a bruciapelo gli chiesi: perché non mi hai invitato al matrimonio di tua figlia? Quello mi guardò un po’ stranito, si fecce rosso in viso e non era il tipo. Speravo che mi rispondesse male, avrebbe potuto farlo. Ma non lo fece, cercò di farfugliare qualcosa di incomprensibile. Dopo essere rimasto impietrito per un certo tempo, raccogliendo le idee e la forza che aveva dentro, mi disse: «Abbiamo avuto una lotta a casa per l’invito da portare a te. Oltre a quello che si dice di te in giro (che sei un infame) che io non ho mai creduto, il timore più grosso era che se tu fossi venuto al matrimonio saresti stato accompagnato dalla scorta dei carabinieri o della polizia».

NON RICORDO se la risposta me la ero preparata prima e, ad onor del vero, io non sarei mai andato a quel matrimonio, l’ho già detto, detesto i matrimoni. Di certo avrei mandato un regalo agli sposi. Ma in quel momento il mancato invito di Rocco mi aveva trasformato nel più accanito sostenitore degli sposalizi e risposi: «Se tu hai ritenuto di non volere un amico, come io ritenevo di essere per te, per condividere una giornata di gioia della tua casa, non devi volere nulla da questa persona, nemmeno fosse l’ultimo uomo o l’ultima cosa presente su questa terra».


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