Il ritratto. Raffaele “Il re di Roghudi”
- Alfonso Picone Chiodo
Per ricordare la morte dell’ultimo abitante di Roghudi avvenuta l’anno scorso vorrei raccontare di un altro roghudese, anch’esso scomparso. All’inizio degli anni ’90 cominciai a guidare gruppi di escursionisti in Aspromonte e Roghudi Vecchio era una delle nostre tappe. Il paesino, in bilico sulla fiumara Amendolea, era stato dichiarato inagibile dal 1972 e quindi senza luce, acqua, ecc. Don Rafele (Raffaele Favasuli) era uno dei tre abitanti che non era voluto andare via. Giungevamo supportati da un paio di furgoni con viveri e attrezzatura da campeggio per 40 persone ma, nonostante questo dispiego di mezzi e la nostra preponderanza numerica, era lui il re di Roghudi. Dormivamo nella chiesa ormai sconsacrata che, anche se cadente, era uno dei pochi edifici in grado di offrire un tetto a tante persone. Era lui che mi consegnava le chiavi, dopo numerose raccomandazioni sul comportamento da tenere nell’edificio, per lui ancora sacro, ed in particolare per l’abbigliamento delle donne. Cercavamo di ricambiare la cortesia offrendo dolci od altro ma lui ci sopravanzava sempre. Entrava in una casa abbandonata e ne usciva fuori con un paniere colmo di ciliegie, da un’altra portava una cassa di birre fresche, da un balcone un cesto di fichi. Per non parlare delle cene consumate nell’unica piazza del paese (in 40 ci stavamo stretti) dove, appena la pasta era servita a tavola, passava con la ricotta salata grattugiandola così fitta che sembrava nevicasse. Era una gioia per lui vedere rivivere il paese, anche se solo per una notte. Ma la gioia più grande è stata la mia che ho potuto ammirare gli ultimi bagliori di una civiltà ormai scomparsa.