Il superiore Don Antonino Pelle, una vita tra Antonimina e Polsi
- Antonio Strangio
Conosco Polsi sin da quando sono nato, perché i miei genitori, ai quali va la gratitudine per avermi regalato il dono più bello, la vita, mi hanno abituato ad innamorarmi di questo luogo di autentica preghiera e pietà popolare, dove per più di 40 anni i miei nonni materni hanno lavorato come collaboratori del Santuario.
Erano i tempi del compianto e umile superiore don Antonino Pelle, un uomo di Dio severo quanto forte, che nei momenti di riposo – si fa per dire – si trasformava in medico e farmacista.
Si racconta che nel periodo della festa sonnecchiava per qualche minuto standosene seduto sulla sedia, perché non voleva stare lontano dai pellegrini che aspettavano il giorno della grande festa tra enormi sacrifici.
Saggio e diligente amministratore, fu scelto non a caso, dal vescovo monsignor Chiappe nel periodo di grande crisi economica all’inizio della Seconda guerra mondiale, e per gli abitanti del Santuario e i pellegrini che vi arrivavano a tutte le ore dell’anno è stato il punto di riferimento per eccellenza.
Monsignor Giuseppe Pugliese, altro grande e compianto sacerdote, così ricorda la figura umile e paterna del cugino sacerdote: «Dopo Cristo, Maria fu il suo ideale. Per trentaquattro anni tenne viva la fiaccola della pietà e della devozione alla santa Vergine nel Santuario più importante della Calabria».
Il più vivo ricordo di questo superiore, che in parte aveva anticipato i tempi, resta legato alla Peregrinatio Mariae del 1948. Morì a Bianco e venne sepolto nel cimitero di Antonimina. Erano anche i tempi del sapore forte e antico dei vicoli colorati di Polsi, e delle carovane che per tre giorni sostavano presso il Santuario.
Nella piccola piazza antistante la chiesa, allora in terra battuta, s’inventavano i giochi più vari, disturbati soltanto alle quattro del pomeriggio, quando il Superiore si affacciava al balcone del suo appartamento e faceva sibilare il fischietto nel tentativo di ricordare a mio fratello Giuseppe, e agli altri ragazzi di casa a Polsi, che era l’ora di andare alla fontana “dell’orto” e riempire il capace coppo di terracotta di quell’acqua fresca dal sapore inconfondibile.
Un servizio molto delicato, perché bisognava attraversare lo spazio dove erano state depositate le casette delle api, le famose e caratteristiche arnie, e ogni movimento, anche il più insignificante, aveva la forza di destare l’attenzione e far arrabbiare quei piccoli animaletti-operai che a tempo debito dotavano le dispense del santuario di un prezioso liquido: il miele di castagno.
Scuro, denso e profumato, una volta nelle mani dell’anziano superiore, diventava oltre che un particolare e gustoso alimento, una medicina con la quale si guarivano catarri, influenze, allergie e altri malanni varii. C’erano allora compare Bruno il muto, titolare del tabacchino e stagnino all’occasione, che di pomeriggio disturbava il sonno di tutti battendo forte con la mazza sulle caldaie; mastro Gerardo, un ciabattino napoletano; frate Vincenzo; Frallario; mastro Nino; don Nicola; il Farfalla; la zia Cristina e altri ancora, piccole e umile personalità che a Polsi riuscivano, a modo loro, a ritagliarsi uno spazio e un ruolo.
Vecchie divagazioni di un ragazzo che non c’è più perché è diventato un uomo, e, in quanto tale, vuole recuperare quella civiltà che va scomparendo e sulla quale, come ha scritto Corrado Alvaro “non c’è da piangere, ma bisogna trarre, chi ci è nato il maggior numero di memorie”.