L’analisi. Storia della mafia: “Il battesimo” di un camorrista
- Cosimo Sframeli
Nell’aprile del 1930, i carabinieri reali della compagnia di Reggio Calabria si occuparono di un’associazione per delinquere operante a San Lorenzo. L’Onorata società che regnava in tale territorio; “un’organizzazione di malavita tendente non solo a commettere delitti contro le persone e le proprietà, ma anche ad imporsi, con tutti i mezzi, per il raggiungimento delle finalità volute dai capi dell’organizzazione stessa i quali, forti dell’accozzaglia di giovinastri e malviventi, pronti all’ubbidienza, riuscirono ad ottenere tutti i vantaggi possibili a danno di coloro che dell’organizzazione non facevano parte e che non osavano opporsi e contrariarli per tema di sicura vendetta. Le persone più spiccate del luogo si servirono più volte dell’aiuto della malavita per la composizione di vertenze private, per salvaguardare le loro proprietà da danneggiamenti, e tali loro azioni indirettamente favorirono lo sviluppo dell’organizzazione stessa la quale, così valutata anche dai signori, riuscì ad attirare nella sua orbita gli elementi più disperati. Per quanto di tale organizzazione di malavita si parlasse continuamente e la cosa fosse di dominio pubblico, le autorità di polizia non riuscirono a raccogliere elementi sufficienti per procedere contro gli organizzatori, giacché nessuno osava denunciare o testimoniare”.
A ben vedere, erano già presenti tutti gli elementi caratterizzanti la ‘ndrangheta; in particolare, la forza intimidatrice, la commistione con le autorità, l’arrogarsi la composizione di ogni controversia privata, l’essere visibile ma non attaccabile dai carabinieri. Ne conseguiva una sistematica impunità e interi processi vanificati dall’insufficienza di prove. L’azione di contrasto era complessa e infruttuosa, i carabinieri della stazione di Cittanova (RC), nel settembre del 1930, scrivevano sulla malavita: “Da parecchi anni quantunque combattuta con ogni mezzo, non s’è mai data per vinta e, sfidando i rigori della legge, perché forte del numero dei suoi aderenti, continua a commettere reati contro la proprietà e le persone. Questo stato di cose è purtroppo conosciuto da tutti, ma nessuno si azzarda a denunciare i responsabili di tanti delitti, in quanto, data la forte organizzazione, le vittime sono invase di paura e quindi, per non subire maggiori danni, sono costrette a tacere. É da tre anni a questa parte che nei comuni di Polistena, Varapodio, Rizziconi, Taurianova e paesi limitrofi i reati contro la proprietà e le persone tornano a preoccupare le autorità di polizia, le quali non sempre possono agire, giacché, data l’omertà, non è possibile colpire con elementi di prova gli affiliati alla setta tenebrosa. […] Per amore di brevità, accenniamo soltanto che il gergo della triste congrega si va arricchendo di nuovi vocaboli e gli statuti hanno subito lievi modificazioni perché oramai si tramandano e s’insegnano a voce per evitare che – come per il passato – cadano nelle mani dell’autorità”.
Il rapporto proseguiva e confermava la struttura della malavita, suddivisa in “minore”, dei “picciotti”, e “maggiore”, dei “camorristi”; la prima con compiti di manovalanza e la seconda di direzione; descriveva minuziosamente la cerimonia con la quale il picciotto veniva battezzato. Il capo società, riunito con i camorristi, proferiva: «Parola di omertà, la società è formata» e, chiamato il picciotto, che restava da una parte, formava un circolo con i convenuti, affermando «Col permesso vostro passa la mia prima votazione franca e libera sul conto di… che aspira alla promozione di camorrista. Se prima lo conoscevo per un picciotto distaccato, ora lo conosco per un camorrista a voce, state comodi?». Tutti rispondevano: «Comodissimi. Parola di omertà la società è formata». Al termine di tale preliminare il capo contabile, dopo aver ordinato ai presenti di lasciare le armi, posava in terra un fazzoletto bianco e vi poggiava sopra cinque pugnali disposti a forma di stella, le cui punte convergenti al centro venivano coperte con un altro fazzoletto rosso. Il capo sceglieva quindi un camorrista che doveva battersi con il picciotto il quale, interrogato sul motivo del duello, rispondeva: «Mi batto per sangue, per onore e per accrescere il numero dei camorristi, nonché per acquistare il centesimo e per discacciare gli infami». Dopo un altro duello, il picciotto doveva rimanere ferito dall’avversario che, dopo averne succhiato il sangue, gli avrebbe medicato la ferita fasciandogliela con un fazzoletto bianco. La cerimonia si concludeva con la nomina, da parte del capo, del picciotto in camorrista con le parole: «Se prima lo conoscevo per un camorrista a voce, ora lo conosco per un fedele compagno, l’accetto in sangue, carne, pelle e ossa, lo difendo col giusto e con l’ingiusto, qui, fuori di qui e ovunque, ma voglio però esatto conto di quello che andrà a fare a favore di questo onorato corpo di società». Il legame, potente e inscindibile, era così instaurato.
Il magistrato Roberto Oliveri del Castillo nel suo significativo libro Frammenti di storie semplici afferma: « […] Ma spesso il sistema dimentica le vittime, le persone offese, così come altre volte dimentica gli indagati deboli, anch’essi vittime di altri sistemi, che fagocitano tutto. E chi si ferma a ragionare sui danni? Su chi viene ingiustamente processato, a volte per fretta, sciatteria, o peggio, per esposizione mediatica? […] In questo “sistema” può capitare che lo spregio delle regole avvenga per protagonismo e vanagloria, oppure che avvenga per sciatteria e pressapochismo, ma il risultato è lo stesso: alla fine alcuni di noi perdono di vista le persone e si pensa solo ai numeri, alle statistiche, alle conferenze stampa e ai titoli dei giornali, o alla soluzione più comoda e meno faticosa e impegnativa. […] Tutto questo senza che nessuno, tranne la nostra coscienza, ci controlli».