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L’analisi. Un brigante in paradiso

  •   Cosimo Sframeli
L’analisi. Un brigante in paradiso

Fu Nino Martino, il mito del brigante buono e generoso, a vendicare i torti della povera gente e a diventare santo. Personificava l’uomo di cui la fantasia popolare aveva bisogno per concretizzare i propri sogni e trasformarli in storia, come aneliti di libertà.

Secondo Augusto Placanica, fu figlio dell’Aspromonte e per tutti rappresentò la voglia di riscatto per le ingiustizie secolari, il desiderio di vendetta per i torti costretti a subire da un sistema iniquo e perverso. La primavera della sua vita l’avrebbe potuta vivere in un momento qualsiasi del lungo inverno attraversato dal popolo calabrese. Quando tutte le ribellioni vissero il loro momento di esaltazione e di gloria nel breve volgere di un mattino, per essere poi soffocate dalla ferocia delle repressioni che non conobbero pietà.

Come tutte le tragiche storie dei ribelli, la sua avventura durò poco e fu un po’ la storia delle giovani vite che si immolarono in nome di un ideale, di una ribellione irrefrenabile, in uno dei secoli più bui della storia regionale. Nino Martino, detto Cacciadiavolo, era un brigante che scorrazzava per il reggino, devastando i casali di Ortì ed incendiando le case dei nobili nel capoluogo. A questo, ed a tanti altri banditi del tempo, era assicurata l’impunità, causa la debolezza del potere centrale, per l’omertà e i mille rifugi garantiti da intere famiglie e dai religiosi nei loro conventi.

Il potere dello Stato, di conseguenza, quando riusciva a mettere le mani su qualche brigante, alla cui caccia si erano mossi interi squadroni, sfogava in episodi di incredibile ferocia. I feudatari calabresi da una parte fondavano o contribuivano a fondare conventi di cappuccini, dall’altra si presentavano arrendevoli o addirittura conniventi col brigantaggio. Alla violenza dei baroni, che non concedevano respiro ai loro sudditi, i banditi rispondevano con altrettanta violenza e ferocia, godendo di una vasta protezione, sia nella popolazione, che li considerava vendicatori dei soprusi e delle angarie subite, sia negli stessi baroni ed ecclesiastici, che li usavano per combattersi a vicenda e per terrorizzare la gente, convincendola che senza la loro presenza essa.

I momenti della rivolta calabrese furono legati al nome di Tommaso Campanella, che aveva una ambizione politica e chiamava in causa i saraceni a sostegno della lotta di liberazione contro il dominio spagnolo. Secondo Augusto Placanica, accanto a Campanella militava il figlio di Nino Martino, uno degli organizzatori della congiura antispagnola. Il suo nome apparve nella storia di Bernardino da Reggio, il quale accolse nel convento tutta la comitiva del brigante e provvide al loro sostentamento, dandogli rifugio. Anche il santo uomo era influenzato dall’opinione comune che Nino fosse un vendicatore dei torti piuttosto che un truce assassino.

Nino Martino divenne protagonista di una vera e propria saga popolare, cantata dai cantastorie. Una ballata è stata raccolta e riproposta da Otello Profazio che ne ha fatto uno dei suoi più noti successi. A fine Ottocento la leggenda di Nino Martino venne riproposta da Vicenzo Padula, che afferma di aver raccolto testimonianze secondo le quali egli fu un pastore che dopo la sua uccisione, per eventi eccezionali, divenne san Martino. Una figura atemporale ed emblematica, “posta sul limite dell’esistenza e oscillante tra magia e poesia, tra mito e rituale”, come dice Carlo Levi.

I briganti, come i santi, combatterono contro la violenza, la prepotenza, la degenerazione dei costumi, i soprusi imposti per legge. Quella di Nino Martino fu una ribellione alla negazione della dignità umana agli umili, ai contadini costretti a vivere una vita bruta e sopportare qualsiasi avversità con rassegnazione, poiché il dolore accompagnava il naturale svolgersi della loro misera vita. La sua forza, il suo coraggio, la fama delle sue imprese gli attirarono le simpatie popolari e l’adorazione della stessa principessa. Ma l’unica figura femminile della sua storia fu la madre che, da morto, lo accolse nel suo grembo per evitargli l’onta dell’oltraggio al cadavere riservato ai briganti e ne custodì la memoria, infondendo forza e coraggio a chi volle continuare la lotta di suo figlio.

Ciò che non riuscì ad ottenere da vivo, lo ottenne da morto, con la sua santificazione. In maniera religiosa, il vino assunse il valore sacrale di comunione e di libertà. Noi meridionali abbiamo un passato di uomini in fuga. Come i tanti profughi che disperati lasciavano le proprie terre devastate dalle violenze, dalle discriminazioni e dai fanatismi. Non abbiamo dimenticato, quando il Parlamento votò la legge Pica che, nelle province del Sud, sospese le garanzie costituzionali ed affidò ai militari l’amministrazione della giustizia. Alla base c’erano ragioni politiche, interessi economici e pregiudizi culturali.

La borghesia piemontese, pur considerandoci incolti e primitivi, era preoccupata per i diffusi fattori di crescita caratterizzante l’economia del Sud, che doveva restare subalterna e funzionale allo sviluppo industriale del Nord. Le nostre popolazioni, avendo creduto a Garibaldi e nei suoi editti, che assegnavano le terre ai contadini, rappresentavano un focolaio di rivolta sociale. Meglio prevenire con l’esercito, con le impiccagioni di massa e le esecuzioni sommarie, e non solo nei confronti delle bande agguerrite di briganti, ma contro intere popolazioni di paesi calabresi, per lo più di contadini che si ribellavano per occupare le terre incolte, innalzando, chissà perché, le bandiere del Regno borbonico.

Fummo briganti. Fu una guerra non dichiarata, ma inesorabile e crudele, che vide in campo un esercito di oltre 120mila soldati. Le fonti ufficiali dei tribunali militari parlavano di 13.853 briganti passati per le armi nei cinque anni di lotta al brigantaggio (1861-1865). In realtà, le vittime della campagna furono almeno 150mila. Si uccidevano i briganti, i loro familiari ed i presunti fiancheggiatori. Si incendiavano le case e si devastavano le campagne. Si confiscavano i capitali, si trafugavano i macchinari, specie quelli moderni ed innovativi delle fonderie, dei cantieri navali, delle industrie tessili. Il Nord non era una potenza industriale, ma lo diventò dopo aver normalizzato il Sud, che si ritrovò privo di risorse produttive ed economicamente emarginato.

Iniziò, e durò per anni, il calvario dei profughi meridionali, chiamati emigranti. Neanche nei libri si parla dei temi brucianti in ordine alle origini della questione meridionale. Storie dimenticate, di stragi e di briganti, colpevoli silenzi politici e culturali su quei crimini e quelle sofferenze. Furono le ingiustizie contro il popolo calabrese a santificare Nino Martino, un Brigante in paradiso. 


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