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L'editoriale. Da lassù, si vedeva il mare

  •   Antonella Italiano
L'editoriale. Da lassù, si vedeva il mare

Dalla montagna si guardava al mare, e ci stupiva quella fila di luci interminabili che ne disegnavano il profilo. Non una verso l’interno, come se una volontà ben definita evitasse di mischiare i vantaggi acquisiti sulla costa, con gli svantaggi della vita nell’entroterra.

Eppure, tra fango, mosche e strade dissestate, seduti su un picco o sotto alberi addormentati, ci sentivamo veri, oltre che liberi, ritrovati, se pure mai persi. Con la terra a colorare i vestiti, e i piedi in torrenti ghiacciati su strati melmosi di muschio e limo, e il pane mangiato a mani sporche, e l’acqua bevuta da sorgenti pietrose, e la frutta il più della volte “toccata”, non ci siamo sentiti mai sporchi, piuttosto in simbiosi.

È una vita dura, quella montana, condivisa con gente reale, dall’aspetto trascurato, la parola semplice, il pensiero pratico e il cuore immenso.

All’ospedale di Locri ci entriamo a occhi bassi, un modo per non invadere lo spazio dei pazienti -pensiamo -, un modo per non essere investiti dal loro dolore, in realtà. E da ogni finestra si vede il mare, e quella fila di luci interminabili che disegnano ora più chiaramente le città. Ed è come essere su un picco, o sotto un albero addormentato, tant’è grande la distanza tra questo mondo e quello usuale. Un via vai di parenti ad ogni reparto, le cui vite viaggiano ad altre velocità rispetto a chi, qui, deve restare; un via vai di medici e infermieri, che guardano troppo spesso l’orologio. Eppure tra flebo, siringhe, e tristissimi bagni, la verità sembra essere tra queste lenzuola in queste stanze tutte uguali, sui comodini che riassumono la gente, nascosta in storie incredibili di coraggio e sofferenza insieme.

Rocco è un omone alto, dalle spalle larghe, con una pancia coperta a stento dalla maglia del pigiama, avrà circa sessant’anni e due occhi grandi e azzurri. Parla di stalle, terreni e uliveti, del trappito e della macelleria, e tutto il giorno ripassa le cose da fare immediatamente dopo il rientro. Ha la lingua semplice dei montanari, una tasca piena di monete, qualche pacco di sigarette, e aspetta con ansia che il caos del pomeriggio sia finito, che i suoi parenti siano rientrati, e che noi sediamo all’ingresso del reparto, come al solito, per smorzare l’angoscia della stanza; come se quel distributore, in cui si ostina a offrirci il caffè, e quei due balconi sempre aperti siano un contatto necessario con la vita.

Ci fa piacere incontrarlo, perché ha innato quel fare teatrale e spiritoso che sa di farsa e di feste di piazza, e tra una bevanda e l’altra, senza mai smettere di fumare, ci racconta la sua storia, tutte le sere, che è drammatica e farebbe piangere, se non fosse per quei dettagli sempre diversi che tira fuori all’improvviso. E allora ridiamo, senza pudore, ridiamo del dolore e della morte, comprendiamo il valore della speranza e la grandezza dell’umanità, della personalità, della dignità, per nulla scalfite da un pigiama, da un catetere, da un letto.

Rocco ha rischiato di morire per una setticemia, ha passato 15 giorni in rianimazione, poi un mese in medicina, poi in altri reparti fin quando i mesi sono diventati sei. «Mi hanno portato tanti di quei vassoi di pasticcini a casa che, credetemi, mia moglie avrebbe potuto costruire un’armacera», e non è meno incisivo quando, piegato dall’infezione che gli fece salire la febbre a 42, racconta dei suoi paesani che invasero l’ospedale di Locri «Davanti alla porta del reparto c’erano tutti. Tutti. Il primario non sapeva cosa fare, alla fine decise di farli entrare a gruppi di venti. Io ero sofferente in quel momento, e tutti mi volevano incoraggiare». Ed ha le lacrime quando ripensa all’affetto della sua gente, a cui lui non ha mai negato aiuto o attenzione: l’amore, quando si dà, torna. Così, quando non lo troviamo più nel letto, capiamo che quella dimissione così attesa è arrivata, e sorridiamo per l’ultima volta immaginandolo libero nella sua campagna piantata ad ulivi. È una vita difficile qui all’ospedale di Locri, dove ogni giorno si attende la visita e la parola di un medico, dove passano persone straordinarie che purtroppo sembrano lasciare indifferenti, dove la visione del mare da ogni finestra ricorda quella frenesia che qui perde qualche certezza, dove anche il pensiero più profondo lascia il posto alla semplicità di una richiesta d’aiuto, dove ci si veste della volontà di tenere alta la testa nel percorso tra il letto e il bagno, attraverso il corridoio, dove si deve dimostrare forza, coraggio, pazienza, ora dopo ora, ora dopo ora.

E dove si attende – troppo – persino l’assistenza più scontata.


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