L'editoriale. Francesco Munzi, un regista solo
- Antonella Italiano
Il carro dei vincitori è pieno, e forse questo lo avevamo previsto, ed è umano rispolverare immagini o ricordi che rimarchino il diritto di esserci saliti. Così quell’impresa coraggiosa di Francesco e Gioacchino, che è aver girato il film, che è aver scritto il libro, diviene essa stessa più umana, più alla portata. Attimi fugaci, abilmente ricostruiti dai più, che mostrano un regista e uno scrittore non solo alla mano, ma a diretto contatto con essi. Nulla da dire sulla disponibilità di entrambi, ma con “i più” non mi tornano i conti e spesso mancano di buongusto.
Grazie a Francesco per aver condiviso con l’Aspromonte, con Bianco e con Africo in particolare, il suo David più bello. E per averlo fatto da quell’altezza da capogiro senza battere ciglio, istintivamente, come un fiume in piena. Una dedica agli ultimi, a quei puntini che avrebbero dovuto essere già spariti dalla sua vita, ma che lui ha anteposto agli affetti più cari.
È stato bravo, è stato un genio. Ed io ho temuto fino a Venezia che la sua opera cinematografica venisse strumentalizzata dai giornalisti e dal pubblico, che mai guardano all’arte ma sempre al “caso”, che la fa da padrone oggi su tutte le televisioni, spostando l’attenzione sui minori, oltre che sulla ‘ndrangheta, propinandoci omicidi e stupri da mattina a sera. Persino nei programmi estivi, da sempre più leggeri.
Un regista sempre al limite, che si è mosso con intelligenza sullo sbiadito confine che esiste tra gli ndranghetisti e le anime nere, costringendo la platea internazionale finalmente a prenderne atto. Mi auguro lo facciano pure gli uomini di Stato, che bollano di associazione mafiosa (si dice persino per un caffè) qualsiasi individuo si muova nelle zone A della Locride.
Viaggia per le sue mete prestigiose in compagnia, Francesco. E “buona” lo riservo per le persone che non conosco, su cui non saprei esprimermi, e per gli ultimi che non hanno potuto seguirlo, né a Venezia, né a Roma, né all’estero, ma che lui con tanto amore si è portato dentro. Perché è stato un regista molto solo, prima, umiliato dall’essere costretto a risolvere i problemi più banali. E se la lotta con i produttori fa parte del mondo stesso del cinema, come è stato testimoniato da nomi altisonanti proprio durante la consegna dei David a Roma, ed è un braccio di ferro comprensibile considerate le enormi cifre che questi scommettono al buio, altre non avrebbe proprio voluto farle. E gli si poteva concedere, con un po’ di autocritica e di coscienza, almeno oggi l’onore delle armi, come merito aggiuntivo al suo coraggio.
La storia è storia. Ed io non ricordo né presidenti, né assessori, né consiglieri di enti e istituzioni pubbliche entusiasti e disponibili ad accogliere il suo progetto. E non ricordo né presidenti, né assessori, né consiglieri di enti e istituzioni pubbliche alle numerose prime che sono state volute qui in Calabria. Perché muoversi tra gli ultimi si teme possa sporcare il vestito buono, o perché come scrive Gioacchino i primi tendono al perenne immobilismo. Ma poi accade che arriva un regista “al limite” e inizia a correre, senza pensare agli allori, al glamour, all’in, e lavora a testa bassa e sfodera un intuito clamoroso nello scovare rose tra le spine. E poi la stravittoria inverte tutto, persino i fatti. Letteralmente.
Ho sentito diverse persone ammettere di essersi sbagliate, e altre non gradire la linea del film pur riconoscendo i meriti artistici del regista; sono remore che testimoniano solo il profondo legame con questa terra e il timore che ricordare alcune pagine dolorose possa allungarne l’agonia. Posizioni legittime, e sostenute non con arroganza ma con grande serenità.
Perché è ammettere che fa di un uomo un Uomo, una tesi perfettamente in linea con il messaggio rivoluzionario che dalle stesse anime nere viene lanciato; esse non rinnegano mai le loro azioni, siano state buone o cattive, piuttosto le rimettono in discussione. La saggezza, del resto, è una dote senile. Mi stupisce solo che alcuni, aggrappati vanitosi proprio a quel carro, non solo non ne abbiano capito le potenzialità ieri, ma non colgano neppure oggi il senso e del film e del libro.
Scendete dunque, e guadagnatevi gli allori al tempo giusto e nel vostro campo, ché se abbiamo abusato dell’aggettivo “ultimi” lo abbiamo fatto per ironia. E quel carro non è mai stato il vostro posto.