L'odore di Don Gino
- Gioacchino Criaco
Don Gino buono non lo era mai stato. Temuto si, aveva fatto così tanta paura che nonostante le sue innumerevoli malefatte nessuno si era mai arrischiato di vendicarsi di uno dei suoi torti. “Fare male e paura non avere”, questo era stato il motto della sua vita ormai centenaria. Ma non era stata solo la sua massima a farlo vivere così a lungo. Aveva sempre avuto la capacità di capire da dove una fucilata gli sarebbe potuto arrivare e i nemici potenziali li aveva soppressi per tempo. E ora che fra qualche mese avrebbe festeggiato il secolo, si poteva permettere il lusso di starsene spaparanzato in piazza, a prendersi il fresco su una panchina sotto i ficus e angariare i vecchi, che al contrario suo erano campati a lungo per il fatto di non averlo mai praticato il male e grazie al fato che non li aveva mai fatti incontrare con la perfidia del vecchio boss.
Li torturava con suoi infiniti racconti, unti di un cinismo condito di un’ironia della quale per forza si doveva ridere, se no, nonostante l’età, era capace di farti ritrovare fra capo e collo il bastone di carpino che don Gino portava con se con la scusa di aiutarsi a camminare. Una delle sue storie preferite era quella del cane. La raccontava spesso, ogni volta che un cane si trovasse a passare per la piazza dove i vecchi si godevano la frescura iniziava ad abbaiare rabbiosamente all’indirizzo di don Gino. Il boss si tirava su dalla panchina, roteava in aria il bastone e il cane scappava a coda e orecchie basse. Il vecchio si sedeva ridendo, pronunciava la solita frase -lo sentono ancora, dopo tanti anni- e attaccava con la storia.
“Successe, il fatto che vi sto raccontando, negli ultimi mesi della seconda guerra mondiale. Siccome non mi ero sentito partecipe dei progetti del Duce, cavalier Benito Mussolini, alla chiamata alle armi avevo risposto no come tanti, e mi ero dato alla macchia, rimanendoci per parecchio tempo.
Una calda domenica di settembre, ero in compagnia di un certo Pasquale Carbone, che scappava anche lui dalla legge, per sottrarsi al pagamento di un conto salato. Era di una decina d’anni più grande di me e aveva già famiglia. Nonostante la drammaticità della sua situazione, il mio compagno riusciva a mantenere il buonumore, era sempre allegro e disposto allo scherzo.
In quel periodo la fame era nera per tutti, la gente macinava le ghiande per farci il pane, che porci non ce n’erano e nelle campagne gli animali domestici sembravano essersi estinti. Chi aveva qualche bene lo difendeva col fucile.
Noi avevamo trovato rifugio presso un contadino che faceva il colono, coltivando uno dei poderi di un agiato possidente che viveva nella città capoluogo di provincia. Il povero zappatore spesso privava se stesso di cibo, per darci un po’ di pane e formaggio e qualche oliva.
Quella calda mattina di settembre, appunto, dovemmo lasciare di buon’ora la casupola del contadino, dato che il padrone arrivava per controllare la sua roba.
Il proprietario era giunto in compagnia della sua signora, e del cane di quest’ultima. Mentre lui controllava le sue terre, noi ci eravamo rifugiati in un fresco boschetto di giovani eucalipti poco fuori dalla proprietà che ci ospitava. Il possidente verso mezzogiorno si era ritenuto soddisfatto dell’ispezione, aveva fatto apparecchiare la tavola al contadino e consumato insieme alla moglie un pasto frugale che si erano portati dietro dalla città. Durante il pranzo la signora aveva allentato la sorveglianza al cane, che si era messo a gironzolare intorno alla casa, per partire poi di botto dietro alle piste di chissà quale animale selvatico.
Io e Pasquale Carbone ci stavamo godendo quel fresco profumato di amaro, che chi non è stato sotto gli eucalipti non può conoscere. Ci vedemmo arrivare sto’ strano animale, e solo dopo che iniziò ad abbaiare capimmo che era un cane. Chi lo aveva mai visto un bassotto da quelle parti. Eravamo sorpresi dalla stranezza della bestia più che spaventati. Il cane però non la smetteva di abbaiare. Eravamo armati ma non potevamo sparare per non attirare l’attenzione.
A un certo punto sentiamo da lontano dei richiami, Romolo.. Romolo..
Capimmo che quello doveva essere il nome del bassotto. Gli tirammo qualche sasso, gli sferrammo un paio di calci e niente, quello continuava a ululare.
Alla signora, che stava chiamando il cane, si era aggiunto il marito. I due avevano iniziato a venire dalla nostra parte. Con Pasquale ci eravamo guardati in faccia e senza parlare ci buttammo addosso a Romolo, gli infilammo il muso nella terra e lo soffocammo.
I signori erano così passati oltre il nostro nascondiglio, continuando la ricerca. Lo avevano cercato per ore. Ma alla fine si erano arresi, rientrando in città. Il contadino li aveva tranquillizzati dicendo che il cane si sarebbe fatto vivo, prima o poi, e avrebbe provveduto a mandarglielo a casa. Il nostro ospite con un segnale convenuto ci aveva poi dato il via libera al rientro nel podere.
Eravamo usciti dal boschetto, Pasquale si era caricato in spalla il bassotto -per seppellirlo da qualche parte avevo pensato io.
Arrivati alla casa che ci ospitava Pasquale mi aveva mandato a fare un giro di perlustrazione, cosa che facevo ogni giorno prima che ci chiudessimo nel nostro rifugio per la sera. Dopo essermi accertato che i dintorni fossero tranquilli, verso il tramonto avevo raggiunto la casa che ci ospitava.
Già prima di entrare le mie narici avevano percepito un delizioso profumo di bollito. Ero entrato eccitato nel locale dove era posto il focolare. Sul fuoco era stato sospeso un pentolone e il borbottio faceva capire che dentro qualcosa stava bollendo. Mi ero avvicinato al fuoco, e dall’acqua in ebollizione, nelle grossa pentola, avevo visto emergere la testa del bassotto.
I miei compari stavano cucinando Romolo.
Avevo guardato Pasquale inorridito, ma lui non si era scomposto, e avvicinatosi al pentolone aveva infilzato con un coltello la testa del cane. L’aveva sollevata e senza tradire le risa mi aveva detto -se ti fa impressione.. la testa la togliamo. E aveva lasciato cadere il cranio del bassotto dentro un secchio, e come nulla fosse immerso un mestolo di legno nel pentolone, e mescolato il bollito.
I miei due compagni avevano fatto cuocere Romolo per tre ore prima di servirlo in tavola. All’iniziò avevo pensato che mi avessero voluto coglionare, e facendo finta di nulla mi ero infilato in bocca qualche oliva. Quando avevo visto che i miei compari stavano spolpando con gusto le ossa della povera bestia, misi da parte la ritrosia e infilai la forchetta fra i pezzi di carne.
Il bollito era stopposo e pieno di nervi, ma un pasto in quel modo il mio stomaco non lo ricordava da mesi. Di Romolo non erano rimaste che le ossa, in breve tempo. I bocconi li avevamo accompagnati con un buon vino, che il possidente, non riuscendo a finire a pranzo, aveva lasciato in dono al suo contadino.
Ce ne eravamo andati a letto contenti, ringraziando in cuor nostro la coppia di cittadini che ci aveva riempito le pance e gli spiriti. Avevo dormito come un sasso per qualche ora. Qualcosa all’improvviso però mi svegliò. Ci avevo messo un po’ a capire che dalla cucina venivano dei rumori. Ci ero andato, sorprendendo il mio amico e il contadino intenti a dividersi la testa del cane.
“A te faceva impressione” mi aveva detto serio Pasquale.. che grand’uomo che era, Pasquale Carbone”. Don Gino terminò il racconto e si assicurò che i vecchi stessero ridendo, uno per uno.
Tornò a tirarsi su dalla panchina. Guardò il cielo che aveva preso a colorarsi con le tinte del tramonto. “Ci vediamo domani”, disse roteando braccio e bastone, più come una minaccia che un saluto.
“Ma cos’è che sentono ancora i cani, Gino?”, disse uno dei vecchi, più per ingraziarselo che per la curiosità della risposta.
“La paura sentono. Sanno capire che chi gli sta di fronte li può ammazzare e si mettono la coda fra le gambe. Gli uomini sono più stupidi, a volte si avvicinano troppo e quando percepiscono l’odore è troppo tardi..”