La bandiera di mio padre
- Domenico Stranieri
Il 23 aprile a Casignana si sono svolte delle onoranze funebri apparentemente normali, se si esclude il toccante ricordo, dopo il rito religioso, pronunciato dal sindacalista Giuseppe Aprile. Non vi era, difatti, un’eccezionale presenza di persone e per molti giovani era morto solo un anziano maestro che aveva insegnato quasi una vita presso le locali scuole elementari. Eppure vi sono memorie e simboli che diversificano questo singolare insegnante che si muoveva senza alcuna fretta, per le vie del paese, a bordo della sua Fiat Seicento azzurra. Sopra la sua bara erano posti dei garofani rossi avvolti da una vecchia bandiera, anch’essa rossa, dove era facilmente riconoscibile il simbolo del Partito Socialista. L’uomo in questione eraAntonio Micchia, figlio di Pasquale Micchia (vice-sindaco di Casignana negli anni ’20), che, come scrisse Gaetano Cingari, ha vissuto “nel culto dell’ideale del padre” (tanto che anch’egli sarà chiamato sempre Pasqualino, in suo onore).
MA PER CAPIRE MEGLIO di chi stiamo parlando bisogna tornare indietro nel tempo, esattamente al 4 ottobre 1922. In questa data, difatti, a Casignana era giunto Bottai (fascista di primo piano che parteciperà alla Marcia su Roma, sarà Deputato e Ministro dell’Educazione Nazionale nonché Fondatore della rivista Critica Fascista e condirettore del quindicinale Primato). Ufficialmente era a Casignana per inaugurare la sede del Fascio ma in realtà egli era preoccupato per quello che era successo in paese quattordici giorni prima. Ma cosa era accaduto il 21 settembre del 1922? Quel giorno Pasquale Micchia, il padre di Antonio (che all’epoca dei fatti aveva meno di quattro mesi, poiché era nato il 28 maggio del 1922), guidava per la stradella delle Croci, insieme al sindaco Giuseppe Ceravolo, un gruppo di braccianti diretti verso la foresta Callistro.
DOPO IL PRIMO CONFLITTO mondiale, difatti, anche in Calabria (che contava 20.000 soldati caduti al fronte) si poneva il problema della “terra ai contadini”, la cui manodopera veniva sistematicamente sfruttata dagli agrari. Era il proseguimento di una complessa questione sociale che Pasquale Villari aveva evidenziato nelle sue Lettere Meridionali fin dal 1875. Osservando oggi molte campagne abbandonate non è facile concepire come le stesse terre, in passato, rappresentassero il sogno e la speranza di una vita migliore per tanti lavoratori che, dopo la Grande guerra, in un clima da “scisma”, erano pronti a lottare per esse. Già nell’ottobre del 1919, difatti, il Prefetto di Reggio Calabria, Igino Coffari, segnalava che nel Circondario di Gerace, fomentato dal Partito Socialista, si era organizzato un movimento di contadini che avevano occupato alcune terre nei comuni di Caraffa, Sant’Agata del Bianco, Ferruzzano e Bruzzano. Anche perché il 2 settembre del 1919 il Governo Nitti, con il decreto Visocchi, tendeva a favorire gli ex combattenti tramite l’assegnazione di terre incolte ad “associazioni agrarie od enti, legalmente costituiti”. A Casignana, quindi, nacque la Cooperativa “Garibaldi”, presieduta da Giuseppe Naim, che avanzò subito richiesta di assegnazione della foresta Callistro (feudo della famiglia Carafa di Roccella). Con decreto e successiva integrazione ad esso, il prefetto di Reggio, Alfredo Ferrara, concesse l’autorizzazione per l’occupazione quadriennale del terreno. Sembrava aprirsi uno spiraglio di libertà, la possibilità di conseguire progressi economici ed avviare delle leggi sociali.
NEGLI ANNI, DIFATTI, Pasquale Micchia aveva annotato in un “libro bianco” (di cui pare esistano ancora tre copie) le dolorose condizioni dei lavoratori di Casignana, sempre subordinati, come in tutti i paesi, allo strapotere di questa o quella famiglia. Tuttavia il 10 settembre, il Prefetto, accogliendo un’istanza presentata dai Carafa e rifacendosi al decreto Falcioni (che imponeva notevoli limitazioni e la creazione di una commissione provinciale per l’esame delle domande di occupazione), firmava un’ordinanza di scioglimento della Cooperativa di Casignana. Il 21 settembre il provvedimento, che includeva anche un’immediata esecuzione, veniva notificato dal Vice-Commissario Edmondo Rossi scortato da venti carabinieri. Tutto tornava come prima. I rappresentanti dei Carafa potevano riprendersi la foresta Callistro e i contadini non disponevano più di nessun mezzo per sottrarsi al loro destino di miseria. Ecco perché il sindaco ed il vice-sindaco di Casignana, quel 21 settembre 1922, guidavano (al posto di Giuseppe Naim, recatosi a Reggio per parlare con il Prefetto) i braccianti della Cooperativa “Garibaldi” diretti verso la foresta Callistro, determinati a ribellarsi contro un provvedimento che consideravano oppressivo e ingiusto. Per questi motivi, e forse anche per altri, nella stradella delle Croci, avvenne la cosiddetta “strage di Casignana”. Secondo Ferdinando Cordova (rivista Historica, 1965) il primo colpo fu quello del “guardiano di casa Roccella, Di Giorgio Bruno, l’unico che portasse il fucile”, il quale “prese di mira e ferì gravemente il sindaco dott. Ceravolo Francesco”. Subito dopo, i carabinieri esplosero 101 colpi, ma ad essi vanno aggiunti quelli sparati dagli avversari della Cooperativa, fra cui numerosi i fascisti”. Nell’aggressione persero la vitaPasquale Micchia, Girolamo Panetta e Rosario Micò. Oltre al sindaco Ceravolo (che rimarrà claudicante per tutta la vita) rimasero feriti Rocco Mollace, Natalino Russo, Rocco Umbrello, Giulio Scappatura e Rosario Domenico Di Gori. Più di ottanta persone, invece, riportarono conseguenze meno gravi.
SECONDO GAETANO CINGARI: «La propaganda socialista si faceva più capillare e più efficace, e a Casignana e in tutte le terre di quel comprensorio ionico giovani intellettuali e professionisti abbracciavano l’ideale socialista e la battaglia dei contadini». Ecco perché Giuseppe Bottai, dopo l’eccidio, si recò personalmente a Casignana. Era preoccupato per la nascita di una nuova classe dirigente in grado di liberare i contadini dal predominio dei proprietari terrieri e, dunque, di ottenere un ampio consenso. Quando il gerarca fascista lasciò Casignana per andare alla stazione ferroviaria di Bianco qualcuno, nascosto dietro le rocce, esplose due colpi di rivoltella, uno dei quali ferì all’avambraccio sinistro un giovane fascista. Quasi immediatamente molti pensarono ad un finto attentato, ma l’episodio venne usato come pretesto per danneggiare la casa di Giuseppe Naim, presidente della Cooperativa Garibaldi.
PASQUALE MICCHIA ERA già morto da due settimane. Aveva 30 anni mentre percorreva il passo delle Croci (“e non si sarebbe più allontanato dal suo popolo“scrisse Mario La Cava nel libro I fatti di Casignana, Einauidi 1974). Poco tempo dopo anche qualche suo compagno aderì al Fascismo. Il figlio Antonio, invece, rimase Socialista per tutta la vita e ogni primo maggio soleva fissare la sua bandiera, appartenuta al padre, sul balcone della propria abitazione. Ma con la sua scomparsa nessuna vecchia bandiera troverà più spazio nel cielo di Casignana, di quelle che rievocano ideali e passioni e per le quali un tempo si poteva pure morire. Tanto simili a Le belle bandiere descritte da Pasolini in una poesia: “a sventolare una sull’altra, in una folla di tela povera, rosseggiante,[…] nella tenerezza eroica d’un’ immortale stagione”.