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La neve e le luci in città

  •   Gianfranco Marino
La neve e le luci in città

Quando rimani solo, spesso fisicamente, altre volte nell’animo, il tempo per pensare è tanto, cerchi allora di impegnarlo, di non riflettere, di convincerti che l’incedere della vita debba, necessariamente, prendere il sopravvento sovrastando tutto e tutti, e poi per fortuna è quasi sempre così.

Ma la mente, si sa, è fervida di ricordi, fatti, ambientazioni, facce, momenti, flash di un passato recente, ma, il più delle volte lontano, che si riaccendono in modo incontrollato ed incontrollabile. Guardi fuori dalla finestra di un anonimo condominio nei pressi di via Ripamonti e vedi luci, auto, gente che corre veloce, senti suoni di clacson, tutto in un mondo che cerchi di sentire tuo, ma piano piano ti convinci che non ti appartiene, allora apri la finestra dell’anima alla ricerca di quello che ti è sempre appartenuto ma che, oggi, senti rivivere solo nella mente.

Di persone, di cose, di situazioni rimane poco, tutto spazzato via dall’incalzare impietoso di un tempo, per molti prodigo di luci, per altri avaro di concessioni. L’autunno, aspettando il duemilaquindici, procede in modo quasi anonimo, tra sfuriate sub-tropicali, bombe d’acqua, momenti di quiete e, in attesa del grande inverno, la mente corre a qualcosa che negli anni è rimasta impressa più di altre, forse perché indipendente dalla volontà umana, forse perché, se hai la certezza che certe cose dell’uomo non si ripeteranno più, sai anche che qualcuna legata alla natura ti lascia la speranza di poterla gustare ancora, con occhi diversi, non più da ragazzo, con occhi di chi della vita ha provato anche il lato più amaro.

Chiudi gli occhi e per un attimo tutte quelle macchine, tutti quei rumori, tutta quella gente, scompaiono e nella mente compare l’Aspromonte pieno dei suoi colori, il verde dei boschi di leccio e castagno, il giallo della ginestra, il grigio della nebbia, il bianco della neve e rivedi le lunghe ed interminabili serate passate davanti al camino acceso, ti sembra di risentire il profumo della legna che arde.

Era il 30 Gennaio 1999, lo ricordo bene, era il primo compleanno di papà che non potevo più festeggiare, lui era andato via troppo presto, la primavera precedente, in un caldo pomeriggio romano, lontano da quelle montagne che amava tanto. Pensavo proprio a questo in quella sera di gennaio, sulla mia 500 color grigio, in un angolo della piazza ad ascoltare musica e a riscaldarmi le mani accendendo di tanto in tanto il motore. L’aria fredda e i vetri appannati mi ricordavano che da quasi vent’anni i tipici inverni aspromontani arrivavano sempre più a singhiozzo. Dieci, quindici centimetri di neve, il cielo, su, a circa novecento metri di quota, li continuava a regalare, ma quelle stalattiti che scendevano dalle tegole come lunghe e splendide sculture naturali, stentavano sempre più a ricomparire. Il clima ormai da qualche giorno era freddo, molto freddo, da circa una settimana il termometro non saliva sopra i tre gradi neanche di giorno.

Chi in Aspromonte è nato e cresciuto ha imparato a conoscere il tempo, da queste parti incredibilmente mutevole e sa che il Levante da queste parti è sempre prodigo di sorprese.

Compare Mico i suoi ottant’anni li portava davvero bene, lui di inverni ne aveva visti tanti e con le nuvole sembrava parlarci. Niente giubbotto imbottito, solo una giacca sulle spalle per fare rientro a casa nel gelo della sera. Mi bussa al finestrino e mi dice di rientrare che il tempo minaccia. «Compare Mico, cosa dite, la fa la neve o ci prende ancora in giro?» «Figghiu si rriva ddu tempu chi si preparau a levanti faci tanta la nivi chi non scuagghia mancu pe aprili!».

Lo saluto e continuo ad ascoltare la radio, l’orologio digitale della 500 segna le 18:33, e i primi timidi fiocchi iniziano a posarsi quasi con timore sul parabrezza, d’un tratto un tuono sordo annuncia quella che sarà una delle nevicate più copiose dell’ultimo ventennio. In un attimo il paesaggio cambia colore. Salgo di corsa a casa, trovo mia madre davanti al camino, poverina, intenta com’era a leggere, non si era accorta della nevicata appena iniziata. Attizziamo il fuoco e guardiamo fuori dalla finestra, come facevamo sempre, prima di salire al piano di sopra per la nanna quando ero bambino. Sono le quattro del mattino e la neve continua a cadere senza sosta ormai da otto ore. Non riesco a chiudere occhio, eccitato come un bimbo, come quando aspettavo che papà mi portasse al campo sportivo a correre a perdifiato voltandomi indietro a guardare le mie stesse impronte e, una volta esausto, mi fermavo a preparare il mio bel pupazzo di neve.

All’alba l’Aspromonte mostra il suo lato immacolato, al suolo ci sono oltre 60 cm di neve fresca. Sento il rumore della pala meccanica, è quella del Comune che cerca di aprire una pista carrabile. Mi vesto di corsa per andare non so neanche io dove, la porta è bloccata, apro la finestra e mi calo lentamente facendo leva sulle braccia e scivolando lungo la schiena, poi mi lascio andare e sprofondo nella neve, sento mia madre che, quasi per inerzia e per dovere, accenna ad un rimprovero, allora penso: è proprio come quando ero piccolo! Ai bordi delle strade, in un silenzio surreale, la neve ammassata dal mezzo meccanico sfiora il metro d’altezza e quindici giorni dopo, complice un periodo incredibilmente freddo, non è ancora scesa sotto la soglia del mezzo metro.

La neve scomparirà completamente dal centro abitato solo i primi giorni di marzo. Alle spalle del paese, su in montagna, sarà la metà aprile, proprio come aveva detto compare Mico.

D’un tratto un clacson mi sveglia, lo sguardo torna sulla via Ripamonti angolo piazza Quaranta, il clacson è quello del tram, è il numero 24, quello che porta verso Pieve Emanuele. Lo sguardo torna sulla città, ormai da tempo non è più la Milano da bere, o almeno non per tutti, quella è sfumata, negli occhi c’è solo la cartolina di una metropoli che, un po’ bonaria un po’ con austero distacco, si mostra disponibile ad accogliere tutti con il loro carico di ricordi e aspettative.

Negli occhi ci sono quelle luci che corrono veloci, nel naso però mi sembra di avvertire ancora l’odore della legna che arde.


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