La riflessione. Le strisce pedonali
- Pino Gangemi
Da tanto tempo Pino non andava a vedere il Borgo. Da quando era ragazzo. L’estate scorsa gli viene voglia di farlo. Prende la strada che porta dal basso rione Bologna al basso rione Borgo. Arriva dove c’era il vecchio forno di sua zia Nora. La bassa e piccola casa che ospitava il forno non c’è più. È stata abbattuta da tempo. Prende la strada a sinistra, molto ripida, del vecchio forno. Passa davanti alle case di suoi vecchi amici, Bbampa, Peppi, l’osteria del prozio Ludovicu. Solo un rapido sguardo e va avanti.http://www.inaspromonte.it/wp-includes/js/tinymce/skins/wordpress/images/more.png); background-attachment: scroll; background-color: transparent; background-position: 50% 50%; background-repeat: no-repeat repeat;">
Nessuno abita più lì: gli adulti di allora sono morti; dei suoi compagni di allora, molti non abitano in paese e i pochi si sono trasferiti in altre vie. Procede in salita e sbuca sulla piazza. Raddrizza la schiena, si ferma un attimo e guarda avanti. Vede le scale che portano al corso Umberto I, la strada statale che attraversa il paese. Non sono più le belle scale curve, coi passamani di pietra di quand’era ragazzo. Sono brutte e strette, coi passamani di ferro. Sale le scale e si ferma, sorpreso, quando, arriva in cima. Si accorge, per la prima volta, delle nuove strisce pedonali. Non sono dove si ricordava: sono state spostate di cinque o sei metri a sinistra; puntano dritte verso un viottolo che porta, per viuzze che percorrono solo coloro che abitano in quei vicoli, al rione Macello.
Per quanto si ricordi, pochissimi fanno quel viottolo. Poche sono le case ancora abitate oltre quelle che si affacciano direttamente su corso Umberto. Una volta, se lo ricorda bene, le vecchie strisce pedonali puntavano dritte alla porta d’ingresso dell’ufficio postale. Se ne vede ancora il segno, quasi cancellato dal tempo. Guarda le nuove strisce, guarda le vecchie. E rimane malissimo.
Suo padre, Saverio, ha lavorato all’Ufficio postale, fino alla morte. Con una dedizione che così gli aveva descritto, quando era ancora un bambino: «Mi alzo tutte le sante mattine di sei giorni la settimana, esclusa ovviamente la domenica, per essere alle 4.15 all’ufficio postale. Mi chiudo dentro, prendo tutte le lettere, anche quelle imbucate di notte, le metto in un sacco, lo chiudo, lo sigillo con la ceralacca, lo marchio con il timbro tondo dell’ufficio e lo consegno, alle 4.40, al bigliettaio dell’autobus per Reggio Calabria che parte, regolarmente, cinque minuti dopo. Quindi, me ne torno a dormire. Lo faccio per ogni contadino che la sera, tornato dal lavoro, si mette a scrivere o si fa scrivere, dal parroco o da un conoscente “letterato”, una lettera al figlio, al fratello o al padre emigrato e che, poi, tardi, a ufficio già chiuso, imbuca la sua lettera. Lo faccio per questo contadino che ha il diritto che la sua lettera sia spedita subito, senza perdere un minuto rispetto al possibile. Figuriamoci un giorno».
Alle otto suo padre riapriva l’ufficio postale che veniva visitato da tantissimi paesani, fin quando restava aperto. Ed era aperto sei giorni la settimana, con una lunga pausa meridiana, fino a sera. Ci passavano tutti da quell’ufficio: per ritirare la pensione, per spedire una lettera, per chiedere una qualche informazione. La posta era il luogo da cui i paesani di una volta si affacciavano sul mondo. Nei giorni di paga per i tanti analfabeti, stazionava nell’Ufficio un vecchio pensionato, Costantino, che poi divenne l’uomo più anziano del paese, perché visse 102 anni. Faceva il testimone, nel senso che garantiva con la sua firma, e con quella di un secondo che usciva a chiamare quando necessario, la croce degli analfabeti sulla ricevuta del pagamento.
Adesso, l’ufficio postale di Santa Cristina d’Aspromonte non ha più l’importanza di una volta. Pochi scrivono lettere e il telefono in tutte le case ha sostituito i telegrammi. Ormai apre solo tre giorni la settimana. E le nuove strisce, impietose, si sono dirette in un’altra direzione, rivelando questa minore importanza ai paesani che le calpestano indifferenti.