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La storia del "bandito" Vincenzo Romeo

  •   Rocco Palamara
La storia del "bandito" Vincenzo Romeo

La gran cassa  

Con la sua antica sede vescovile,  la pretura, il carcere e la strategica caserma dei carabinieri, Bova funzionò nel tempo da avamposto delle istituzioni verso il più profondo Aspromonte e i remoti paesi di Africo, Casalinovo, Roccaforte, Roghudi e i vari Ghorio. Da là partivano verso l’interno i gendarmi contro i rei e i ricercati di quelle comunità “ribelli” e gli occasionali fuggiaschi foresti che bazzicavano i territori; salvo poi  – tra il 1950 e il 1955 – essere proprio Bova la centrale dei banditi.

Per una strana combinazione in quel periodo anch’io e la mia famiglia abitavamo a Bova, profughi da Casalinovo per l’alluvione del 1951.

Seppure allora ero solo un bambino, delle tensioni che passavano da quel paese di frontiera ebbi sentore anche io per l’intenso traffico di camionette con carabinieri pesantemente armati che andavano e venivano dai  Campi di Bova. La cosa che mi impressionò di più fu però un episodio in cui non vidi armi né violenze e dove tuttavia percepii qualcosa che mi inquietò: uscendo dall’Asilo, all’entrata del paese, presi a risalire lo stradone senza case che porta alla piazza della corriera (dove ora c’è la locomotiva), quando vidi venirmi incontro un gruppo di persone gesticolanti e a calare veloci al centro della carreggiata. Per le modalità della scena, stavano celebrando una sorta di Triofo simile a quelli che molti anni dopo avrei visto nelle allegorie di Bacco; ma senza ninfe leggiadre e rubicondi beoni: i partecipanti erano tutti giovani uomini snelli con bianche camicie e i capelli piegati di lato “alla bovisciana” (gli adulti del mio paese li portavano rigorosamente pettinati all’indietro).

Giubilanti, esternavano una allegria che non invitava alla condivisione mentre il loro vociare e le risa si frammentavano al rombo cupo di una grancassa,  il gran tamburo delle bande, che il prim’intesta  batteva ossessivamente (Tun…Tun …Tun…) mentre  altri due, che lo seguivano, portavano in spalla un uomo – il trionfatore – sostenendolo da una gamba ciascuno. Gli altri, circa una dozzina, li accompagnavano ballonzolando e gesticolando con frenetica allegria. Ma a che pro quella spaparanzata parabellica? Penso che celebrassero una vittoria e la sconfitta di nemici.

Fatti i conteggi, in base alla mia età di allora, eravamo nel 1952, anno di elezioni amministrative per cui, rapportandolo all’evento, il tizio portato a spalle poteva essere il neo sindaco democristiano appena eletto, oppure il famigerato bandito Vincenzo Romeo che col suo sostegno era stato determinante a quella elezione. Con maggiore possibilità del secondo però, visto il luogo discosto della strana manifestazione.

Che un ricercato per gravi delitti potesse essere portato in trionfo in un paese tra i più presidiati dell’intera Calabria è tutt’altro che impossibile visto le cose stranissime che  accadevano allora in provincia di Reggio e specialmente a Bova dove perno di ogni cosa era il bandito Vincenzo Romeo.

Il bandito

Il suo nome correva di bocca in bocca nei paesi della Calabria intera in quel dopo-dopoguerra pieno di tensioni. Alle Scole (l’edificio scolastico adattato ad alloggio per noi profughi da Casalinovo) di lui parlavano tra di loro gli uomini con fare carbonaro, e – persino – le donne che nel nominarlo pronunciano “Vicenzino….”, come lo chiamavano anche i suoi paesani. Ma di lui parlavano anche i giornali, indicandolo col non meno vezzeggiativo “Bandito romantico dei Campi di Bova”. Delle due carinerie, la prima era perché proveniva da una famiglia  agiata, e la seconda dal fatto che la sua carriera di bandito cominciò col ratto di una ragazza di cui s’era invaghito. Nell’affibbiargli quel soprannome, i giornalisti giocavano sul fatto e il cognome “Romeo” evocativo della nota tragedia  shakespeariana.  Ma Vicenzino non era per nulla romantico, né Lei era Giulietta ma una certa Antonia Borrelloche non lo voleva affatto.

Dopo il rapimento la rimandò a casa, certo ormai di poterla sposare quando voleva col consenso torto collo dei suoi, come allora funzionava. Ma fu ancora lei a non volerlo sposare a ogni costo. Un atto rarissimo per quei tempi, e un brutto affare per l’aguzzino che senza il matrimonio che estingueva il reato di stupro dovette scomparire dalla circolazione. 

Il vescovo

Per evitare l’arresto Romeo si diede alla macchia aggregandosi con altri fuggiaschi che battevano le montagne dei dintorni condividendo il loro modo di vivere e andando incontro ad altre disavventure. Fu in quelle circostanze, se non prima, che venne affiliato alla ‘ndrina di Bova facendo di lui uno dei pochissimi indranghetisti di famiglia borghese. Cercò nel frattempo di risolvere il suo problema con Antonia che continuava a resistere a tutte le insistenze e alle ambasciate.

Onore al merito,  Antonia non era una ragazza qualsiasi per comportarsi in quel modo a quei tempi: con la prospettiva di passare la vita da zitella disonorata senza colpa alcuna e il malacarne che l’assediava ancora.

Ma anche quella resistenza eroica dovette infrangersi davanti all’ultimo e straordinario intermediario ingaggiato dallo spasimante: nientedimeno che il Vescovo di Bova.  Questi, mostrandosi sensibile alla tragedia della sventurata,  se la fece portare al suo cospetto dicendo di volerla confessare di persona, ma poi puntò allo scopo e la convinse: perché Lei – povera ragazza di campagna – non poté reggere di fronte a tanta Alta religiosa autorità! 

Chi era propriamente il vescovo non potrei dirlo con certezza (nei discorsi che ascoltavo da piccolo e che sono alla base di questo racconto il vescovo era “il vescovo” e nient’altro) ma, col massimo delle probabilità, questo era mons. Giovanni Ferro, titolare dell’arcidiocesi di Reggio – Bova a partire dal 15 settembre 1950.

Si convenne così a (in)giuste nozze in una cerimonia officiata dal canonico Don Foti nella casa stessa della sposa poco distante dal paese e tanta “bella gente” tra gli invitati.

Il bandito coronava così il suo progetto originale, con Antonia tutta sua e più nulla da temere per quel primo reato,  ma pendevano ormai su di lui altri mandati di cattura  per gli altri delitti che aveva commesso o di cui era accusato nella vita di bandito.  Allora di vita tranquilla non si poteva più parlare, ma non del tutto: dato che col Vescovo era ormai sorto un sodalizio o, comunque, una intesa che gli assicuravano protezioni a tutti livelli e sostanzialmente l’impunità. Divenne noto a tutti che stava regolarmente a casa sua.

Notando che i carabinieri non intendevano pigliarlo, prese a girare la voce che lui non aveva nulla da temere dagli sbirri  “…che con quelli ci mangiava e beveva…” : onta gravissima e segno d’infamità che Romeo cerco di parare con una messinscena clamorosa; complici gli stessi carabinieri che finsero un giorno di averlo catturato in campagna per poi apparire alle prime case di Bova con lui “caricato di ferri e catene”. L’apparizione non poteva non intricare chiunque in quel grande palcoscenico che era lo stesso paese. Alla prima egli avanzava altero in mezzo a tanti sbirri secondo l’icona del martire popolare. Poi, a un tratto, il cambio di scena e – per secondo atto – Romeo sfilò a uno dei carabinieri la pistola; minacciò tutti e si fece liberare sotto gli occhi ammirati di tanti spettatori. Non so se seguì l’applauso, di certo Lui si dileguò ….


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