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La storia del "bandito" Vincenzo Romeo (3a parte)

  •   Rocco Palamara
La storia del "bandito" Vincenzo Romeo (3a parte)

L’operazione Marzano

Verso la fine del 1955 l’anomalia “Romeo” stava per terminare, ma fece in tempo a incrociarsi con quell’altra vicenda epocale che fu “l’Operazione Marzano”: una iniziativa speciale di polizia nella provincia di Reggio presentata all’opinione pubblica come una novella “Operazione Mori“ contro il banditismo e la criminalità organizzata. Fu in realtà una operazione pasticciata in cui quello che emerse con più chiarezza fu che il regime democristiano non aveva nessuna voglia di sopprimere il sistema mafioso; salvo poi funzionare come una sorta di spedizione punitiva contro quella parte della ‘ndrangheta che era comunista e che non erano riusciti a corrompere con i milioni per la campagna elettorale. Nel tentativo anche di indebolirla e addomesticarla.

L’inizio sa di tragicomico, perché a provocare (loro malgrado) l’intervento del governo furono due noti protettori di mafiosi: l’Arcivescovo Giovanni Ferro, e l’agrario Antonio Capua. Questo’ultimo anche deputato del partito Liberale e sottosegretario al Ministero dell’Agricoltura.

Il “mostro” di Presinaci.

Ad aprile di quel 1955 c’era stato un primo allarme “Calabria” con la vicenda clamorosa di Serafino Castagna, il cosiddetto “mostro di Presinaci” che in un sol giorno uccise cinque persone tra cui suo padre. Poi, benché claudicante, si diede alla macchia armato di moschetto aggirandosi minaccioso nelle forre del Poro.

Poiché attivamente ricercato, a giugno il “mostro” venne catturato ma l’orrore dell’eccidio restava vivissimo quando, il 10 agosto nelle campagne di Sambatello, in Aspromonte, accadde il fatto che servì da scusa e fece da innesco della famigerata Operazione. Alcuni malviventi scambiarono la macchina su cui viaggiava la moglie dell’on. Capua con quella di un imprenditore facoltoso a cui avevano imposto un riscatto. Quando questa gli sfrecciò davanti tirando dritto, spararono alcuni colpi in aria tanto per minaccia.

Il disguido fu chiarito alcuni giorni dopo e gli sprovveduti anche arrestati; ma nel frattempo si pensò di tutto di peggio e non senza ragione perché dei possidenti erano già stati sequestrati per il riscatto. La classe padronale pensò di essere sotto attacco per una alzata di testa della malavita e a un intollerabile affronto non meglio definito visto che, come risaputo, “don” Antonio Capua si appoggiava e favoriva i mafiosi (suoi procacciatori di voti).

La “vibrante” lettera del Vescovo.

E se neanche a favorirli (i mafiosi) non serviva a nulla, NON C’ERA PIU RELIGIONE (!), e arrivati a quel punto, ad alzare la voce fu l’arcivescovo di Reggio/Bova Mons. Ferro che il 15 agosto (appena 5 giorni dopo del “fattaccio”) lanciò una ”vibrante” lettera pastorale per sollecitare le autorità a un energico intervento repressivo contro non meglio determinate “tenebrose società segrete”, che a suo dire soggiogavano la gioventù e che “… la Chiesa aveva sempre condannate …”(!?).

Seguì a ruota una campagna di stampa su scala nazionale atta ad allarmare l’opinione pubblica e smuovere le istituzioni.

Il 2 di Settembre, nel giornale “La Stampa” comparse un articolo, “I CAPI DELLA MAFIA CALABRESE NASCOSTI FRA 20.000 PELLEGRINI”, riferito alla festa della Madonna della Montagna a Polsi, presentata come un convegno occulto di indranghetisti di cui addirittura diecimila armati di fucile! Fandonie colorite; ma per fare un esempio concreto lo stesso articolista non trovò di meglio che citare le scorribande dell’ “imprendibile” Vincenzo Romeo.

Del perché era “imprendibile” ne sapeva qualcosa Mons. Giovanni Ferro che a quel punto dovette pensare di essersi sbilanciato troppo e per i successivi venti anni (o forse mai) non ne fece più di tali pastorali.

Lo stesso Capua sentì di essersi cacciato in un terreno minato e nel tentativo di scongiurare l’operazione repressiva in arrivo, cercò di minimizzare il problema criminalità arrivando persino a negare il fatto accaduto a sua moglie. Ma ormai era tardi: la macchina del Ministro degli Interni Fernando Tambroni riscaldava i motori per l’imponente operazione di polizia passata col nome del questore incaricato, Carmelo Marzano, e che iniziò puntualmente il 10 settembre del 1955 .

Uno sbirro dimezzato.  

A 60 anni da quel giorno c’è ancora chi, nei paesi dell’Aspromonte, ricorda con disappunto l’arrivo dei “marziani”e di quel portarsi via le persone, buone e cattive, quasi a casaccio. E non c’è nessuno degli storici o scrittori di ‘ndrangheta, per quanto ignorante, che non sappia quanto quell’operazione, allora tanto decantata dal governo, non risorse un bel nulla in fatto a malavita organizzata.

Marzano, benché investito da poteri speciali e di mezzi e uomini esperti, era condizionato politicamente sia dal Ministro a cui doveva mandare i rapporti giornalmente, che dai membri della commissione con cui dovette gestire gli aspetti più controversi del suo mandato. Questa, oltre a lui stesso, si componeva di quattro soggetti (un maggiore dei carabinieri, 2 magistrati e un avvocato nonché membro di altre associazioni) espressione degli stessi poteri corporativi, economici e amministrativi ai quali propriamente andrebbero addebitati la mala gestione della provincia e persino dell’insorgere di un potere mafioso che andava ad estrapolarsi sin da allora dalla vecchia ‘ndrangheta. I quattro ( + il questore) dovevano proporre, giudicare e decidere sulle misure di pubblica sicurezza da applicare ai soggetti sottoposti, in base alle nuove e più severe disposizioni conferite.

Tutt’altra faccenda era quella per la cattura dei latitanti che competeva al solo Marzano.

Detto comitato, che all’apparenza passava per uno strumento democratico, era in realtà un organismo atto più ad intralciare che ad applicare la legge con imparzialità. E così messe le cose Marzano era uno sbirro volutamente dimezzato.

Ho i miei dubbi sui vari componenti della commissione (visto anche i risultati) ma addirittura si passa alla farsa andando a vedere come uno, l’avv. Domenico Catalano, era un noto amico di mafiosi di alcuni dei quali (i boss più importanti) era anche difensore di fiducia. Inoltre era anche lui un grande proprietario terriero; presidente dei comitati civici che avevano sostenuto l’elezione del sindaco democristiano di Reggio e – se non bastasse – anche un alto esponente dell’Azione Cattolica. In questa veste dipendeva dell’onnipresente Arcivescovo di Reggio/Bova col quale sono documentati incontri nel merito dell’Operazione.  

Inutile che dica come l’avv. Catalano fece di tutto per salvaguardare gli amici suoi e quelli dei suoi amici, anche se rinomati mafiosi. Nel tentativo di salvarlo dal confino, tentò persino di scagionare ’Ntoni Macrì; senza però riuscirci perché già di allora il “ boss dei due mondi” era straconosciuto.

Un bandito “Superstar”.

Quello che non era più difendibile neanche dal Papa in persona era Vincenzo Romeo, divenuto ormai il contraltare di Carmelo Marzano. Non catturarlo significava fallimento completo dell’operazione e se disgraziatamente lo avrebbero ucciso si sarebbero attirati un mare di sospetti e contraddizioni.

Il valore mediatico sulla sua eventuale cattura (se ben fatta) valeva più delle decine di rastrellati nei paesi o dei gruppi di confinati alle isole diramati dai bollettini.

Costatato che catturarlo in tempi utili parse quasi impossibile, cercarono di convincerlo tramite intermediari a presentarsi da solo; ma egli, che non ci stava di essere sacrificato nel nome delle altrui operazioni, annunciò di conservare un memoriale e le lettere compromettenti di importanti personalità. Chi doveva intendere intendesse, perché non voleva finire come Salvatore Giuliano.

Ricatto per ricatto, Marzano e i suoi presero suo fratellastro Domenico Larizza e lo confinarono per 3 anni e mezzo all’isola di Ponza. Quindi marcarono stretto i suoi fiancheggiatori e a uno a uno catturarono o costrinsero a presentarsi tutti quelli della sua banda. Ma, mentre intorno gli facevano terra bruciata, sottobanco trattava con lui con molto cautela.

Per gettare fumo negli occhi all’opinione pubblica si fecero operazioni di parata con centinaia di poliziotti e carabinieri mandati a cercarlo dove non c’era, ma al posto giusto ci andò invece un solitario capitano dei carabinieri per un incontro a quattrocchi e un colloquio che durò dalle quatto di notte fino alle 10 di mattina. Il tutto, ovviamente, doveva rimanere segretissimo ma poiché si seppe lo stesso anche i più ingenui dovettero capire che il motivo dell’incontro era quello di recuperare le lettere compromettenti e il memoriale.

Reazioni e proteste contro l’operazione.

La scandalosa gestione dell’O. M. ebbe l’effetto di scatenare giornalisti di prestigio e parlamentari dell’opposizione che all’unisono trovarono proprio nella figura del Romeo la pietra dello scandalo da usare contro il governo per inchiodarlo alle sue ipocrisie.

Il 2 ottobre nel settimanale “L’Espresso”, il giornalista Luigi Locatelli sollevò la questione con un articolo in cui sviscerava di fronte ad un pubblico nazionale, confuso ed ignaro della realtà calabrese, delle incongruenze di quell’operazione e le scandalose protezione accordate al bandito Romeo: grande elettore per quello stesso partito (la DC) a cui appartenevano i promotori dell’ operazione repressiva. Ma fu subito dopo, il 4 ed il 5 ottobre, che nel corso di due memorabili sedute parlamentari, la denuncia fu fatta con tutti i crismi dell’ufficialità dai deputati Rocco Minasi e Salvatore Alicata (calabrese e socialista il primo e siciliano e comunista il secondo) che denunciarono innanzitutto come la reale fonte di ogni male era lo stato di scandaloso abbandono della provincia di Reggio, con particolare riferimento alla condizione dei contadini vessati ma in lotta con i proprietari terrieri.

Minasi, che parlò per primo, rinfacciò al governo l’impunità accordata al bandito Vincenzo Romeo. Tra le interruzioni e i battibecchi con lo stesso Ministro dell’Interno Tambroni, spunta – come da verbale – la voce stizzita di Filippo Murdaca, che evidentemente si sentiva la coda di paglia per il riferimento di certi telegrammi inviasti da Romeo ad importanti personaggi democristiani, e anche a lui.  

Nel suo altrettanto mirabile intervento, Salvatore Licata denunciò come il favoritismo verso i veri mafiosi era arrivato al punto che il precedente questore di Reggio, tale dott. Sciabica, aveva distribuito a piene mani porto d’armi anche automatiche ai pregiudicati filogovernativi. Poi, in merito alle lettere compromettenti in possesso del Romeo e dei suoi ricatti, si rivolse a Tambroni esortandolo (in realtà ammonendolo) di prenderlo vivo e che non si facesse fare anche a lui la fine del bandito Giuliano

La resa.

Dopo quelle denuncie (ed i contrasti sorti tra le stesse fazioni democristiane) l’operazione fu avviata a chiusura accelerando le trattative per la resa del Romeo.      Da parte sua l’ormai celebre bandito era costretto in scarsi spazi di manovra: compromesse le convivenze; malvisto dalla gente; braccato dai nemici e ricercato finalmente anche dalla polizia, si ridusse a dormire nelle tombe che lui stesso aveva costruito nel cimitero di Bova. E quando poi anche quella situazione gli parse insostenibile accettò di trattare con Marzano e di consegnarsi a lui da persona a persona.

L’incontro, concordato nei particolari, avvenne nelle campagne tra Bova e Bova Marina alla presenza di tale Medici, avvocato di Romeo e della sua stessa moglie che da alcuni giorni era tenuta in ostaggio nella caserma di Bova. Si era a quel punto arrivati all’ 8 ottobre 1955: dopo quasi nove anni della sua straordinaria avventura.  

Solo così Marzano poté cominciare a ritirare la truppa e Tambroni chiudere formalmente (il 27 ottobre) l’operazione: a suo dire perfettamente riuscita.

Ironia della storia, in tutta quella babele di falsità e ipocrisie, chi ebbe a fare una bella figura – elogiato persino dalla stampa di sinistra – fu il Vescovo Mons. Giovanni Ferro che da protettore di banditi si era atteggiato a uomo d’ordine e moralizzatore. Lo ritroveremo però tale e quale nel 1970 a benedire le barricate di Reggio capoluogo, tra i boia chi molla e i boiardi del sottogoverno democristiano. Finalmente morto, le ultime notizie (settembre 2015) dicono che stanno per proclamando BEATO!

LA SMETTERANNO MAI DI RIFILARCI QUESTI BIDONI DI “SANTI”?

Gli ultimi privilegi.

Da avveduto imprenditore quel era, Romeo trasse il massimo utile di quel suo estremo “concedersi” alle Istituzioni, intascando innanzitutto la sua stessa taglia che (per volere del Questore) da 500.000 passò a ben 5 milioni di lire. Ottenne anche che a suo fratellastro Domenico venisse revocato il confino e per se ancora di trascorrere tre giorni a casa con i suoi prima di passare alle patrie galere.

Fu così che dal luogo dell’incontro il Questore e il Bandito si recarono insieme nella casa di campagna di quest’ ultimo, come due vecchi amici; con l’unico fallo che – trapelata poi notizia – la strana licenza venne interrotta per ordine dei magistrati che imposero l’immediata conduzione del prigioniero in luogo più appropriato. Come ultimo privilegio fu concesso ai suoi famigliari di seguire su una 1100 la camionetta della polizia che lo conduceva al carcere di Reggio. Nel riportare la scena della sua consegna ai carcerieri, la “Gazzetta del Sud” descrisse di come sua moglie ebbe a lanciarsi urlando e piangendo contro il pesante portone che si chiudeva dietro il marito.

Visto come era iniziata con Antonia, era anche quella una ben strana conclusione. Una delle tante stranezze di questa istruttiva (ma nascosta) storia calabrese.

PS: 12 anni dopo.

Come altri criminali collaboratori atipici del Potere costituito, Vincenzo Romeo non invecchiò in carcere; e dopo appena 8 anni venne scarcerato. Tornato a Bova per il giorno 17 agosto 1969 che era di festa, verso la mezzanotte dovette accorgersi che alcune delle detonazioni non c’entravano con i fuochi d’artificio dirette in cielo ma erano pistolettate che gli saiettavano addosso.

Crivellato di colpi ma non del tutto ucciso, poteva forse cavarsela se condotto velocemente all’ospedale di Melito; corsa permettendo le “perfide” curve di Bova. Ma esse … non vollero!


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