La storia di Marco Sergi, un "nonno garibaldino"
- Carmelo Azzarà
I nipoti diretti, gli zii, ci parlavano del loro nonno Marco, che, lasciando il suo piccolo paese sull’Aspromonte, raggiunse non ancora diciassettenne la zona tra Montalto e Gambarie, per arruolarsi coi garibaldini al seguito dell’Eroe de due mondi, dopo il secondo sbarco nel 1862, a Melito Porto Salvo, per risalire la penisola al grido di “Roma o morte”. Il bisnonno Marco Sergi, essendo un bravo tiratore, anche se giovanissimo, venne incorporato nella formazione speciale dei “cacciatori dell’Aspromonte”, il corpo fondato da Agostino Plutino, appartenente ad una nota famiglia di cospiratori antiborbonici di Reggio Calabria. Ed il bisnonno Marco fu presente al ferimento di Garibaldi, in seguito allo scontro-incontro col generale Pallavicino, ed il trasporto del ferito attraverso le montagne, sino a Scilla, per essere poi imbarcato su una nave verso La Spezia agli arresti domiciliari dell’esercito piemontese.
Il nipote più grande, che aveva il suo stesso nome e cognome, ricordava alcune vicende, raccontate dalla viva voce del nonno quando era ragazzino. Le storie delle varie battaglie, della terza guerra d’indipendenza, sempre volontario al seguito di Garibaldi. Ricordava la famosa battaglia di Bezzecca, nel 1866, quando i volontari garibaldini, con grande spirito patriottico, erano ormai convinti di aver scacciato e sconfitto gli austriaci, liberando il Trentino. Ma un telegramma del generale piemontese in capo giunse a Garibaldi con l’ordine: «Armistizio firmato evacuate il Trentino».
Garibaldi comprese l’intrigo diplomatico, e non sapeva come comunicare l’orribile comando alle sue truppe e con grande strazio del suo cuore, soffocando il dolore e la rivolta, trasmise la memoranda parola: «Obbedisco». Quindi tutti i combattenti dovettero rilasciare il Trentino in mano agli austriaci, da cui i volontari l’avevano quasi interamente scacciati, con migliaia di morti sparsi sul terreno.
Il bisnonno ricordava la disperazione dei soldati, che si sentivano traditi, i pianti, la rabbia, i fucili scaraventati lontano. Dopo queste battaglie i volontari garibaldini meridionali rientrarono al Sud e, giunti a Napoli, trovarono il colera, per cui i calabresi e i siciliani furono imbarcati su una nave che li portò a Messina e a Palermo.
Il racconto di questi leggendari avvenimenti è rimasto impresso al nipote Marco, che ricorda la camicia rossa e il berretto conservati presso l’abitazione di una figlia del garibaldino, mia nonna, a Roccaforte del Greco. Io ero troppo piccolo per averli potuti notare, quando andavo a trovare la nonna, che certamente li custodiva con amorevole cura. Ricordo invece un vecchio fucile ad avancarica, che mi dilettavo a maneggiare, presso l’abitazione di un figlio del mio bisnonno, mio prozio, e un revolver che aveva lasciato ad un altro nipote che aveva il suo stesso nome, Marco Perpiglia, futuro noto antifascista e combattente nella guerra civile di Spagna del 1936/39, nelle brigate garibaldine e nelle brigate della resistenza.
Del bisnonno conservo un piccolo ricordo: un elegante bastoncino di ciliegio, che lui ha dimenticato a casa mia, a Melito Porto Salvo, in seguito ad un suo viaggio, fatto da solo, all’età di 92 anni, per recarsi col treno a Crotone ospite di una sua nipote. Al rientro da Crotone s’intrattenne a casa mia per alcuni giorni, fra le affettuose premure di mia madre. Ritornato a Roccaforte raccolse in un diario le esperienze di questo viaggio e delle zone visitate.
Durante una commemorazione del 4 novembre, la festa della vittoria - ricordava sempre il nipote più grande - un tizio, con lo stendardo dell’epoca fascista, si era posto di fronte a lui, in prima fila, e con insistenza pretendeva di coprire la bandiera tricolore, che lui in divisa di garibaldino, sollevava con fierezza. Con un colpo secco dell’asta della stessa bandiera, il bisnonno scaraventò per terra lo stendardo, intimando al tizio: «Sappi che in prima fila ci sono stati sempre i combattenti come il sottoscritto, che ha collaborato per l’unità d’Italia».
Prendeva una modesta pensione in qualità di reduce combattente, che non gli venne aumentata su sua rispettosa petizione direttamente a Vittorio Emanuele III, ricevendone invece, una tantum, un’indennità personale per meriti di guerra. Quando andiamo a visitare la sua tomba, deponendo un fiore, ripetiamo: «Era il bisnonno garibaldino».
di Carmelo Azzarà