La testimonianza. Camminare con la morte per compagna
- Cosimo Sframeli
Ci furono persone che affrontarono persecuzioni, fame e morte per affermare i valori della Giustizia. Ce ne sono state altre la cui energia si spreca ancora alla ricerca di una persecuzione, di un comodo martirio, in libertà. Da qualche cattedra insegnano come comportarsi, ad essere retti, onesti, leali. Mostrano di essere perseguitati e, parlando senza un effettivo pericolo, per le agevolazioni che ne derivano, risolvono il “martirio” in un affare. Al contrario delle vere persecuzioni, quando vicino non rimaneva nessun amico e il pensiero della morte era il principale compagno.
In nome della legalità, si promuovono petizioni o sottoscrizioni, partecipazioni a trasmissioni televisive, meglio se del servizio pubblico nazionale, per annunciare drammi e dimostrare verità rivelate. Una cultura in perpetuo divenire, tutto da appurare e da correggere, da definire e da elaborare, ma non si potrà mai leggere che la dottrina di moda predicata sia la ricetta infallibile e risolutiva dei dubbi, degli affanni, del malessere di questa terra, delle tristezze e perplessità degli intellettuali.
La nuova morale, la nuova legalità, le nuove verità, purtroppo non riusciranno a separare la luce dalle ombre, non sveleranno gli inganni e le ipocrisie, tentano già d’insegnare che la ‘ndrangheta si contrasta con annunci, cortei, fiaccole, convegni, con eccessi di retorica e di cerimonie.
In Calabria c’è un meridionalismo che ricorda le colpe dello Stato, le truffe e l’avidità di un’Italia ricca, le complicità fra ‘ndrangheta e istituzioni, fra ceto politico e finanza. I ragazzi dei paesi dell’Aspromonte, che pure sono usciti dalla millenaria miseria, che pure appaiono vestiti come i loro coetanei dell’Italia ricca, stessi jeans, stessi maglioni, stesse motorette, sono visti e considerati come nemici, ‘ndranghetisti o contigui a loro, senza possibilità di riscatto o di salvezza.
Quando ci fu la notizia che quattro paesani furono uccisi dai carabinieri mentre tentavano un sequestro di persona, a San Luca e Natile, ci fu il lutto generale, non per solidarietà ma per umana pietà. Fu il parroco, don Pino Strangio, a ribadire ai parenti degli uccisi che l’arma onnipotente di Dio era la misericordia e fu lo spirito evangelico a non far degenerare i giorni di dolore in ferocia barbarie. Così come ad Africo, quando la polizia sparò ed uccise un latitante arrestato dai carabinieri.
Il rancore profondo della Calabria povera per il resto d’Italia maturò negli anni della grande fuga quando centinaia di migliaia di gente emigrò in Australia e America, nei Paesi dell’Europa o nel nord Italia. Il risentimento trovò nuove ragioni di essere nel confronto con una borghesia politica emergente ladra e avida. Resta ancora inspiegabile il sadismo verso taluni sequestrati. La necessità di restituire Carlo Celadon peggio che fosse stato in un campo di sterminio o in un gulag.
Devono essere nascoste le ragioni della psicologia mafiosa che imponevano di detenere i prigionieri incatenati in fosse coperte di rami. Ai tempi, in quell’anno, otto sequestrati passarono il natale e il capodanno in una dura e inumana prigione dell’Aspromonte. Trasferiti gli uomini della squadra di Locri, i Naps, le teste di cuoio armate fino ai denti, gli elicotteri, le centrali, i cinofili, gli agenti dell’intelligence, i militari dell’esercito, erano pronti ad affrontare i sequestri di persona che fossero più emotivi di altri.
La legge della ‘ndrangheta regnava sovrana quando un sequestrato rimesso in libertà si sprofondò in ringraziamenti e affettuosi ricordi per i suoi sequestratori. Il problema non si sarebbe risolto militarizzando l’Aspromonte, diceva il dottor Carlo Macrì, per stroncare il fenomeno dei sequestri non sarebbe bastato mandare in montagna l’esercito. L’Anonima aveva messo in piedi un’industria con tanto di divisione di lavoro, gerarchie, volume d’affari e le forze dell’Ordine lavoravano sul controllo del territorio mentre Ravizza veniva trasferito sulle montagne in taxi.
Investigando sulle organizzazioni si individuarono i canali del riciclaggio e si poté risalire agli ideatori dei sequestri. Sospinti da due sostituti della procura di Locri, Ezio Arcadi e Carlo Macrì, si formò nel 1983 un pool investigativo, un pugno di uomini che, rinunciando a tutto ciò che era personale, indagarono sulle cosche con una strategia: dalle banche alle bande. Si ricostruirono per intero le piramidi organizzative di tanti sequestri, dall’ideatore al carceriere, dal telefonista al riciclatore.
Il lavoro investigativo del pool non durò a lungo, tre anni. Le prime reazioni, all’inizio lente e sottili, cominciarono ad assediare il gruppo quando seguendo la pista dei soldi sporchi gli inquirenti ammanettarono politici o seguendo le maglie delle cosche accusarono intoccabili (o presunti tali). Ricordava il giudice che cominciò un arretramento delle istituzioni, un palese fastidio assediò il pool e le inchieste stagnarono. Fu uno scontro di cultura e mentalità. “Il giudice, in queste terre, non può essere come un pasdaran mandato allo sbaraglio con la baionetta: occorrono bagaglio tecnico, conoscenze, impegno morale. Se questo non c’è, la mafia ha già vinto”.
La normalizzazione fu un dato di fatto, non era contingente ma effetto di scelte generali del governo e degli apparati dello stato. Francesco Spanò, a capo di quella squadra, un maestro per tanti ed insuperabile investigatore per tutti, fu l’ultimo a lasciare Locri, era stato tra i 50 uomini scelti dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa negli anni del terrorismo. In una stradina di fianco alla caserma di Locri, il montacarichi della ditta Crivelli di Catanzaro andava su e giù dall’alloggio con i suppellettili del maresciallo, inteso l’archivio vivente dell’Anonima, della ‘ndrangheta. Ci sarebbero voluti decenni per sostituire la sua conoscenza di luoghi e di persone.
A tutt’oggi, la sua conoscenza non è stata ancora sostituita. Nella storia del pensiero, il cattivo maestro non genera discepoli, ma li origina ambiguamente. Arrabbiato sempre con qualcuno, sa dove porsi nella lotta astratta, laddove si è costretti alla scelta di metodo senza valutarne gli effetti e le concrete ricadute.
Le ambiguità o i paradossi possono essere sciolti da un punto di vista pratico, senza doppie verità, come teorizzano gli pseudo intellettuali inquisitori. Lasciamo coloro che veramente sacrificano la loro carne a promuovere, con azione sistematica, i migliori modelli e le migliori prassi educativo-culturali; a sostenere i programmi di cultura al senso civico, prima della stessa legalità basata sul virtuosismo idealistico privo di conseguenze; a formare coscienze libere, prima delle ideologie, che permettano la crescita di una cognizione collettiva; a crescere nella consapevolezza e nell’identità culturale, fuori dalle rappresentazioni di piazza, dalle infantili forme di socializzazione.
Da qualche cattedra, che insegnino a studiare, nelle scuole e università, ad educare al bello e alle sue espressioni, a ricercare l’archè nelle migliori prospettive.