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In Aspromonte
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  •   Bruno Criaco
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Dalle prime luci dell’alba l’elicottero dei carabinieri volteggiava sopra le gole dell’Aposcipo, e solo poco prima di mezzogiorno una cinquantina di militari in mimetica arrivarono al casello di Spanò, sulle montagne di Africo. Quelli che giunsero per primi avevano il viso coperto dai passamontagna e ai nostri occhi, il più grande di noi aveva meno di diciotto anni, sembrarono giganti, poi si scoprirono il viso e tornarono ad essere solo uomini.

Qualcuno di loro si pose in modo eccessivamente autoritario, ma il comandante, un anziano tenente colonnello siciliano, solo con lo sguardo li mise subito a posto, e iniziò a parlare con noi. Ammise che lui e i suoi uomini avevano fatto l’ennesima inutile battuta, e soprattutto ammise che senza l’aiuto degli aspromontani mai sarebbero riusciti ad ottenere risultati positivi in quella parte della montagna. Segnò su di una mappa militare un triangolo, poche decine di km quadrati che erano considerati inaccessibili per chi non era nato in quelle zone. I militari erano convinti che lì stavano i sequestrati, ed erano consapevoli che non li avrebbero mai liberati. Era l’inizio degli anni Ottanta, sono passati oltre trenta anni e quel triangolo è rimasto off-limits.

Di “abissi” così nell’Aspromonte ce ne sono parecchi, gli uomini ormai rinunciano ad entrarci, e solo poche specie di animali osano sfidarli. Il cinghiale, la volpe, e pochi altri. Il lupo sicuramente è uno di loro.

Il lupo autoctono dell’Aspromonte è il re incontrastato di queste aree, e non esiste telecamera o altro marchingegno elettronico che riesca a catturarne il profilo. Dal suo regno si sposta solo per cacciare le prede, di esso si possono vedere le orme nella neve. Di esso si può sentire l’ululato nelle notti di luna piena. Incontrarlo è quasi impossibile. I lupi che si vedono sempre “piedi piedi” sono altra cosa, non sono nativi della nostra montagna.

Monitorare la fauna di alcune aree dell’Aspromonte è impossibile oltre che inutile. A questa montagna i nostri antenati, nel corso dei millenni, sono riusciti a strappare una buona parte del territorio, e per tantissimo tempo lo hanno curato con il rispetto che si deve ad un Dio. Resero coltivabili, terrazzandoli, e portandoci l’acqua con condutture (le mastre) scavate nel granito e sospese su burroni profondissimi, migliaia di ettari di terreno roccioso.

Con l’esodo forzato verso le marine, tutte le “conquiste” sono andate perse, e le aree inaccessibili diventano ogni giorno più vaste, ci sono intere foreste di lecci e di castagni che sono soffocate dai rovi e dalla ginestra spinosa. E i rovi soffocano e divorano i paesi fantasma dell’Aspromonte senza che nessuno muova un dito.

In alcuni casi basterebbe davvero poco per fermarne il declino, ed il tutto spendendo meno soldi di quanti se ne spendono per cose per nulla necessarie. Ma far rivivere i paesini della montagna, creare qualche posto di lavoro, e farci tornare quei pochi che ancora lo desiderano, è cosa impossibile. Anzi, negli ultimi cinquant’anni si è fatto e si sta facendo di tutto per allontanarli.

Il dramma, la triste verità, è che ancora oggi, agli aspromontani, è concessa una sola alternativa: l’emigrazione.


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