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Micarè, dall’Aspromonte a Brooklyn

  •   Bruno Criaco
Micarè, dall’Aspromonte a Brooklyn

«Micarè, prendimi quella pietra che ho quasi finito»

«Si pà, fate con calma, abbiamo ancora un po’ di tempo»

Giuseppe lavorava la pietra con maestria, le sue “armacere” erano perfette. Indistruttibili. I suoi antenati da secoli fasciavano l’Aspromonte, e nei terrazzamenti coltivavano di tutto. Gli ulivi giganteschi che proteggevano il vecchio contadino dal sole li avevano piantati loro, così come i gelsi neri, che ne costellavano il fondo. Dai gelsi neri Giuseppe strappava con dolcezza le fronde per nutrire i bachi da seta, convinto che quella inevitabile operazione facesse soffrire i suoi alberi preferiti. A quel tempo la seta era l’oro bianco dell’Aspromonte, e gli allevatori del baco occupavano un ruolo prestigioso nelle classi sociali. Purtroppo, in quella che lui considerava la sua terra, faceva solo il fattore, quindi i profitti restavano solo in minima parte alla famiglia: cinque figli maschi, cinque femmine e Maria.

Domenico era il più grande e lo aiutava da quando aveva pochi anni, era orgoglioso dell’anziano genitore, dal quale aveva appreso tutti i segreti della montagna. Preparava con padronanza trappole per volpi, ghiri, pernici, cinghiali e per ogni altra specie di selvaggina. Il padre gli aveva insegnato pure il greco antico, la lingua dei vecchi. Con questo idioma comunicava con lui, e sempre dandogli del voi. Superflua dimostrazione del suo rispetto.

«Pà fatemi restare qua con voi, non ho paura di partire soldato»

«Maria, dagli i soldi e la tua benedizione»

Le parole del padre, per la prima volta, gli fecero male. Sapeva che il vecchio stava cercando di allontanarlo dal pericolo, ma non accettava che quell’idolo potesse stare senza il suo Micarè. La delusione durò solo un istante. Una lacrima solcò il volto rossiccio e lentigginoso del vecchio, e Domenico si vergognò dei suoi pensieri.

Si girò, come faceva ogni mattina, verso la Testa di Giove, la montagna che da sempre aveva protetto la sua gente, come un leone protegge i suoi cuccioli, e, nella sua lingua antica, chiese perdono. Poi pregò Dio e gli Dei di proteggere la sua famiglia.

Domenico, due suoi fratelli e una decina di loro compaesani, attraversarono la montagna per raggiungere il porto di Reggio da dove dovevano prendere la nave che li avrebbe portati a Napoli e da lì a New York, nel nuovo mondo. Li accompagnava il “riggitano”, uno strano personaggio, una sorta di negriero che passava ogni mese dai paesini aspromontani e reclutava i disperati che non sapevano neanche cosa fosse l’America.

Durante la traversata la presenza dei fratelli non riuscì ad attenuare il senso di solitudine. Micarè si stava allontanando dal suo mondo, e invano cercava di trattenere nelle narici gli odori della terra, quella distesa infinita di acqua salata li stava cancellando. E il mondo che lo aspettava come poteva essere? Lì i suoi Dei lo avrebbero protetto?

La prima cosa che vide dell’America fu una testa gigantesca che spuntava dall’acqua, sembrava uno dei suoi Dei, e inevitabilmente pensò alla testa di Giove. Cercò d’immaginare cosa pensarono gli antichi conquistatori quando la videro la prima volta, e divenne ancora più triste. Lui, nel nuovo mondo, arrivava da schiavo.

E per tanti anni lavorò come uno schiavo sui tetti dei grattaceli in costruzione, insieme ai fratelli, ai compaesani e agli indiani d’America, ai quali almeno una cosa li accomunava: non soffrivano di vertigini. L’infanzia passata a giocare sugli alberi dei boschi li aveva fatti diventare dei veri e propri acrobati, si muovevano come scoiattoli, non temevano il vuoto.

Ad ogni alba Micarè cercava con lo sguardo la testa di Giove. Per un solo istante. Pensava alla lacrima che il padre non riuscì a trattenere, rinnovava mentalmente la vecchia preghiera e poi sprofondava nella nostalgia. Ogni tanto arrivava qualche nuovo compaesano e portava i saluti dei parenti e qualche notizia della sua terra. Tanti coetanei che non lo avevano seguito erano partiti per la guerra ed erano morti o dati per dispersi, il paesino era ormai allo sbando, la miseria e le malattie imperversavano, ma tutto ciò accentuava il suo desiderio di tornare a casa. La sicurezza del nuovo mondo non lo appagava, avrebbe preferito di gran lunga i pericoli della guerra. Alla guerra poteva sfuggire, all’America no.

E Micarè, che neanche si sposò per poter mandare tutti i risparmi a casa, morì senza rivedere il padre, la famiglia, le montagne. Morì cercando di capire per quali peccati i suoi Dei gli avessero girato le spalle. Morì cercando con la mente gli odori della sua terra. Morì convinto che ci fosse un’altra vita, e che l’Aspromonte l’aspettava.


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