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Ombre e luci d'Aspromonte. La vendetta di Antonia

  •   Cosimo Sframeli
Antonimina Antonimina

Il clima culturale che ha animato le faide è stato quello della violenza, trasmessa per apprendimento sociale da una generazione all’altra, sino a creare quella condizione anomala che i sociologi identificano in sottocultura della violenza. C’è stato ben poco da fare, la sottocultura è stato un processo di aderenza a norme culturali particolari, fiorite nel sottobosco di strutture arcaiche, isolate, emarginate. Il 26 maggio 1967, in via XXI Agosto, a pochi passi da Piazza Carmine, nel cuore della città di Reggio Calabria, Antonia Alati di 19 anni fredda a colpi di pistola Pietro Quattrone da Cardeto, un operaio cinquantaduenne, ritenendolo principale responsabile dell’uccisione di suo fratello, Antonino Alati, avvenuta all’alba del 21 aprile 1966, in località “Croce Romeo”, sull’Aspromonte, e rimasta impunita. Con mano ferma, la giovane punta l’arma, una pistola Bernardelli calibro 7.65, contro Quattrone, intento a scendere da un pulmino di sua proprietà, e preme il grilletto tante volte, sino a quando non si esauriscono le munizioni.

Tre colpi vanno a bersaglio e lo attingono allo stomaco, alla bocca, alla tempia destra. Gli altri colpi sparati si conficcano nel muro di una casa. La vittima predestinata cade all’indietro e muore all’istante. Per qualche minuto serpeggia il panico tra la gente che affolla il centro. Antonia Alati, vestita a lutto, agita ancora l’arma e, mentre si allontana verso piazza Carmine, in dialetto della provincia di Reggio grida: «Che nessuno si avvicini. Ho fatto vendetta di quel farabutto che ha ucciso mio fratello». Arrestata e condotta in Questura, la giovane minorenne (all’epoca la maggiore età si raggiungeva a 21 anni ndr) racconta le ragioni per le quali ha ucciso e i poliziotti non fanno fatica a collegare l’accaduto con l’uccisione di Antonino Alati, delitto rimasto impunito, attribuito ad Antonio e Giuseppe Quattrone, figli di Pietro, prosciolti con formula dubitativa dal giudice istruttore Francesco Delfino, proprio due mesi prima. Antonia Alati non ha accettato la sentenza della società e, a dispetto dell’assoluzione “per insufficienza di prove” pronunciata dalla magistratura, covando la certezza che il responsabile della morte del fratello fosse proprio il capofamiglia, Pietro Quattrone, senza tener conto delle leggi dello Stato, lo uccide con rabbia plateale. Allo scrupolo, alla perplessità, ai dubbi, alla coscienza di chi ha pronunciato la sentenza assolutoria, anche se con formula dubitativa, oppone la sua certezza di giudicare e di pronunciare il verdetto di condanna, eseguendolo. Purtroppo, in quegli anni, non è stata la sola a regolarsi in questo modo. Antonia spiega di non aver potuto resistere di fronte al dolore di sua madre, Caterina Sapone; di non poter ripensare la vista di suo fratello Antonio disteso per terra e ormai cadavere sul quale gli assassini hanno infierito a colpi d’arma da fuoco, fino a sfigurarlo. Antonio Alati è stato ucciso all’alba del 21 aprile 1966, per la Statale che da Gambarie conduce a Bagaladi, verso le ore 06:00, quando alla guida di un pulmino, svolgendo l’attività di autotrasportatore, transita per “Croce Romeo”. Ha appena accompagnato gli operai forestali e sta rientrando quando “qualcuno” gli ha intimato di fermarsi. Sceso dall’automezzo, è stato investito da scariche di pistola in pieno petto. Ferito e sanguinante, secondo quanto stabilito dai carabinieri che si sono occupati delle indagini, ha tentato di sottrarsi alla furia omicida, girando le spalle e fuggendo, ma è stato raggiunto da altre pallottole e, quando ormai senza vita stramazza a terra, altro piombo gli squarcia le carni. I carabinieri hanno puntato i sospetti sulla famiglia Quattrone; Pietro e i figli Antonio e Giuseppe sono stati subito fermati e, interrogati a lungo, negano e respingono ogni contestazione. Si è trattato solo di sospetti e le indagini, non confortate da elementi illuminanti, sono state abbandonate.

Riprese qualche mese più tardi dalla Squadra mobile, l’inchiesta ha avuto una svolta con una deposizione giudicata determinante. I fratelli Antonio e Giuseppe Quattrone sono stati nuovamente arrestati ed accusati di aver ucciso Antonio Alati, con la complicità di un compaesano, Antonio Cento, anche lui finito in carcere. Successivamente, la “deposizione determinante” è stata smentita nella fase istruttoria dell’indagine, sicché il Giudice istruttore rimette il libertà gli indiziati con verdetto di assoluzione. Antonia Alati, con mano ferma, applica la sua giustizia. Il dubbio che Pietro Quattrone fosse estraneo all’omicidio del fratello non ha sfiorato la sua mente. Corrado Alvaro penetra profondamente in questo aspetto mortificante di tessuto sociale. «Il compimento di una vendetta – dice – è piuttosto una disgrazia, un farsi giustizia da sé per diffidenza dei tribunali e per rispondere all’opinione pubblica che in certi casi reclama il delitto». Sottolinea Alvaro «Rappresenta la rivalsa di una certa condizione, il fascino di un potere segreto che ride di ogni altro potere e che pretende di esercitare una leggendaria giustizia secondo il codice di una brigantesca cavalleria. Essa rappresenta, insomma, l’acre soddisfazione di chi è arrivato a fare da spettatore, di chi non è attore di una vita organizzata». Concludeva Alvaro «E da qualche decennio ho sempre ritrovato in certi paesi, dove più dove meno, l’impressione di occulto che è nell’aria, nel parlare sommerso e per accenni quella cautela, quel voltarsi indietro, quell’atmosfera furtiva per cui tra le pareti domestiche si parla bisbigliando di certe persone e di certi fatti. E l’improvviso silenzio di un paese, certi giorni, le strade deserte, le finestre chiuse». In Calabria, proprio dove è nato il diritto, vi è stata una faida alla terra, che ha rappresentato lo specchio di una società rimasta come remora dolorosa e terribile al processo civile.


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