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Ombre e luci. La montagna dei fuggiaschi

  •   Rocco Palamara
Ombre e luci. La montagna dei fuggiaschi

Uno dei frutti malefici della guerra fu nella provincia di Reggio il banditismo. Tornando dai fronti e dalle prigionie, tanti degli ex soldati dovettero cimentarsi in una loro personale e supplementare guerra per come trovarono le cose nelle loro famiglie e paesi.

Per la patria avevano già dato e il nuovo travaglio fu un ulteriore tributo alla malasorte e alle consuetudini paesane. L’Aspra Montagna, sempre pronta ad accogliere nel bene e nel male i suoi più sventurati figli, e le tante armi lasciati dagli eserciti in ritirata, incentivarono le vendette e i delitti per un periodo di grandi turbolenze e travagli da noi detto Il TEMPO DEI FUGGIASCHI.

Tanti, al loro ritorno, trovarono situazioni intollerabili riguardo le proprie donne, con ferite nell’onore da lavare solo col sangue; e altri dei torti alla famiglia passibili di vendette o (per lo meno) “chiarimenti”, degenerati anche in omicidi. Altri ancora, stretti dal bisogno e nelle difficoltà del periodo, si resero responsabili di furti e altri misfatti di cui poi i mandati di cattura e la messa in lista tra i catturandi.  I magistrati, tutti appartenenti alle famiglie dei proprietari terrieri, erano severissimi con le persone comuni, in massima parte contadini che sulla loro “giustizia” avevano tristi esperienze e motivati dubbi. Solo per andare a processo erano spesso anni e anni di carcere. Nell’attesa del processo era normale che una persona anche non malavitosa, ma abituata ai disagi della campagna, si gettasse alla macchia rimanendoci fino a poco prima che iniziasse; mentre per i più inguaiati la latitanza era a oltranza, senza traguardi con la legge e senza fine.

L’Aspromonte era, ed è, la montagna più adatta per stare “uccel di bosco”, e non solo per le possibilità di ben nascondersi, ma anche per quella di potersi spostare in incognito da un capo all’altro ed accedere con facilità ai paesi per incontrare  famigliari e amici; e dagli stessi rintracciabili e normalmente riforniti di viveri e vestiti.  

Dato i tempi particolarmente critici di quel dopoguerra, non furono pochi quelli che in mancanza di mezzi di sostentamento, e per pagarsi anche gli avvocati, si diedero ai furti di bestiame ed estorsioni in denaro (di modesta entità), alimentando il circuito del malaffare; aggravando il loro debito con la legge e andando incontro a micidiali conflitti interni per le discordie e la difficile convivenza tra banditi.

Sui Piani della Corona.

I nuovi arrivati andarono man mano ad aggiungersi ai disertori e agli evasi dal carcere di Locri scappati in massa nell’estate del 1943. Quando cioè, tra l’incubo dei boati di un bombardamento aereo sulla cittadina, i fratelli Salvatore e Paolo Megna di Siderno attrassero con una scusa le guardie, li imbavagliarono e liberarono tutti i detenuti. Ciò detto a loro onore e sorte di risarcimento per i 28 e 30 anni di galera che gli costò quell’atto di coraggio e di generosità.

Fu così che nei primi tempi circolavano a centinaia i ricercati, stazionando nei posti più internati delle montagne e aggirandosi nei dintorni dei paesi.  Un grosso concentramento di qualche centinaio di fuggiaschi stazionarono per qualche tempo sui Piani della Corona, il posto più strategico dell’Aspromonte dove, in tempo di incertezze e di debolezza del Governo, gravitarono là rassicurati dal numero e luogo senza peraltro costituire una banda unitaria: essendo una massa eterogenea  non di veri criminali, ciascuno in attesa di notizie riguardanti la propria sorte… lo stato dei processi… le amnistie….

Venne allora messa in campo una forza di contrasto costituita da una truppa mobile di circa 150 carabinieri in tenuta da campagna che come un piccolo esercito in territorio nemico batté i vari settori della montagna nel tentativo quasi vano di catturarli; costringendoli comunque a frazionarsi e disperdersi.

Non furono però quelli più internati e nascosti gli elementi fastidiosi per la popolazione di quel periodo, ma taluni soggetti solitari o inccriccati in piccoli gruppi che si aggiravano più d’appresso ai paesi, non per stare vicini ai famigliari, ma da male intenzionati; e alcuni in particolare per intimidire cittadini e contadini in appoggio dei proprietari terrieri e potentati locali, che promettevano loro l’impunità. Questi ultimi banditi (pochi per fortuna) erano malvisti persino dalla malavita e poco o nulla ricercati dagli sbirri che in qualche caso si alternavano negli stessi servizi.

La ‘ndrangheta e i fuggiaschi

Molti dei latitanti erano (o lo diventavano) ‘ndranghetisti in forza alle loro ‘ndrine dalle quali ricevevano protezione e aiuti, e col particolare privilegio (in quanto “cavalieri erranti”) di presenziare armati alle riunioni canoniche a “circolo formato”.

Essi costituivano una risorsa in termini militari, ma essendo nello stesso tempo anche soggetti potenzialmente destabilizzanti, la politica dei capindrina spingeva affinché si costituissero alle autorità. E tanti lo fecero infatti, andando incontro anche a decenni e decenni di galera. Altri, con pene gravissime o addirittura ergastoli sul groppone si regolarono diversamente: i più fortunati scapparono in America, e altri restarono alla macchia fino a che non vennero presi o uccisi.

Di questi restò per nominata un terzetto di compari: Peppi Audino di San Luca, Michele Pizzata di Casignana e ‘Ntoni Pacileo di Ferruzzano che agivano sempre insieme e con – a volte – un quarto latitante africoto, ricordato in paese come u maru Marguni (Per i non calabresi, quel maru sta per fu).

Tutti loro (tranne il Pizzata che quasi si gettò volontario alla latitanza per seguire Audino che era il suo idolo), nella prospettiva di passare la giovinezza nelle galere, scelsero di consumare la parte che potevano in libertà vivendola secondo il loro delirante ideale malandrino proiettato ad avvicinarsi il più possibile al “vero punto d’omertà” ventilato nell’immaginifico lirico della ‘ndrangheta col suo mito dell’Omu chi vali e poti: trasfigurazione del cavaliere medievale senza macchia e senza paura incarnato da Peppi Musulinu ancora in vita (morirà nel 1956) ed eccelso esempio di emulazione.

Il gruppetto batté per qualche tempo l’Aspromonte meridionale e la Locride trascurando le faccende di tipo economico e spendendosi invece in numerose imprese tese ad affermare la loro personalità.

Incurante dei carabinieri della locale caserma, il santolucoto Peppi Audino alloggiava con donna e figli a Ferruzzano da dove partiva per le sue missioni insieme agli amici Pizzata e Pacileo. Non bastasse, per dimostrare chi la comandava veramente in quel paese, in prossimità della festa del Santo Patrono, mandarono una ambasciata ai carabinieri intimandogli di non uscire quel giorno dalla caserma che “per l’ordine pubblico” ci avrebbero pensato loro.

Non essendo da meno, u maru Marguni ad Africo colse l’ occasione della festa di San Leo per un “assolo” dal risvolto sentimentale: mitra in spalla e moglie sottobraccio si presentò in piazza per assistere alla festa come la più normale delle coppie. E i carabinieri? Stavolta erano presenti ma, giudiziosi, e forse anche un po’ filo-romantici, optarono per l’armistizio girandosi dall’altra parte.

Quattro contro tutti.

Essendo proprio nella FESTA il momento migliore per conclamare la propria valentia e peso malandrino, i quattro non potevano non esibirsi nel sommo palcoscenico di Polsi ai primi di settembre, quando,  in ricorrenza della festa della Madonna,  convenivano là gli indranghetisi di ogni parte per gli incontri di vertice e la somma riunione dei capi. Occasione in cui si distribuivano doti e meriti, o anche si toglievano ai “deboli” e agli indisciplinati.

Confusi nella moltitudine dei normali pellegrini convennero anche loro; e là si diedero a fare e disfare conflitti e “sentenze” per favorire le persone amiche, volenti o nolenti i vari capondrina. In un caso, un compare di Peppi Audino, appena spogliato e ‘ntartarato con infamia, venne rialzato (riabilitato)e rimesso al suo posto su pressione dei quattro.

Tanta malandrineria anarchica però non era tollerabile nel rigoroso ordine ‘ndranghetista, per cui i vari capi scelsero di levarseli di torno una volta per tutte decidendo per la loro testa. E non per modo di dire: perché a conservarla (la testa) fu il solo ‘Ntoni Pacileo che scappò in America. Al maru Marguni gliela tagliarono di netto mentre dormiva in un pagliaro; a Pizzata in altre circostanze, che non ricordo, ed a Audino gliela spaccarono in due con colpo d’ascia scagliata a distanza due suoi paesani, giovani ma di grandi speranze malandrine. Nell’allusione simbolica tipica degli ‘ndranghetisti, quelle teste avevano mal ragionato e come un frutto bacato andavano staccate, e “dall’albero della scienza” e da quello della vita.

Con la loro eliminazione terminava l’epoca eroica dei latitanti ribelli del dopoguerra che in qualche misura furono anche popolari, a loro modo dei romantici enon i peggiori tra i disperati. 


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