Palizzi. La storia dei fratelli Misefari, anarchici reggini
- Redazione
«La società non avanza sulla bocca dei cannoni o sulla punta delle baionette ma l’umanità cammina per virtù del lavoro, dell’amore che affratella tutti i popoli». Fu il credo di Bruno Misefari.
In seguito ad un occasionale colloquio col dottore Autolitano di Palizzi, psicologo e amico di famiglia, fui invitato, molti anni fa, a tracciare le vicende umane, sociali e politiche dei fratelli Misefari. Cercai di farlo nel migliore dei modi possibili, con piacere e con tanta modestia, poiché molti scrittori e biografi (e io non sono né l’uno né l’altro) lo avevano già fatto a lungo e meglio di me, e sperai di poter dare il mio contributo di notizie che mi erano rimaste in mente dalla viva voce di Enzo Misefari e che avevo ricavato dalla lettura dei suoi libri. Il dottore Autolitano avrebbe voluto pubblicare un giornale, a diffusione locale, su vari argomenti culturali, e dedicare il primo numero all’approfondimento delle figure di questi fratelli, suoi concittadini. Purtroppo non gli fu possibile e quindi, oggi, colgo l’occasione di proporlo al periodico in Aspromonte, con i cui direttori ho il piacere di collaborare ad ogni numero in uscita.
Lo storico incontro
Nel 1976, rientrato dopo anni di lavoro a Roma, ebbi modo di conoscere per la prima volta, e personalmente, Vincenzo Misefari, Enzo per gli amici, ormai noto con questo diminuitivo. Mi presentai come Azzarà, ma gli spiegai che ero conosciuto e chiamato, insieme ai miei familiari, come Misefari o Miseferi. Enzo s’incuriosì e, prendendoci un caffè a casa mia, gli spiegai che io ero cresciuto con la mia famiglia nella stessa casa di una zia rimasta vedova (e senza figli) di un certo Rosario Miseferi, titolare di due negozi, aperti a Melito Porto Salvo sul viale Garibaldi sin dal 1925. I negozi avevano un’antica insegna in legno, stile americano, con scritto sopra “Rosario Miseferi”. Questo Miseferi, quindi, era morto giovane a Philadelphia, in Pensilvania, dove aveva avviato la stessa attività commerciale, e la moglie, dopo la scomparsa del marito, aveva continuato a gestire i due negozi di Melito, col fratello, mio padre. Per questo siamo conosciuti e chiamati Misefari o Miseferi, complice l’antica insegna rimasta per moltissimi anni sulla facciata dei locali, sopra i due negozi. Enzo si ricordò di questo Miseferi, emigrato in America, e si ricordò anche che, passando da Melito, molti anni più tardi, aveva saputo dalla moglie che il marito era morto in America. Nell’occasione dell’incontro, ipotizzò che ci fosse una antica parentela, data la comune provenienza, e che la variazione Miseferi e Misefari era riconducibile ai possibili errori di trascrizioni anagrafiche comunali.
Una solida amicizia
Indipendentemente da queste premesse, s’instaurò tra me ed Enzo un affettuoso rapporto parenterale, una lunga amicizia e stima scambievole, consolidatasi con frequenti visite a casa sua, e nei periodi estivi a Melito o a Mannoli di Gambarie, dove lui trascorreva le ferie. Gli incontri si sviluppavano piacevolmente con lunghi e interessanti colloqui in tanti campi della cultura, di cui lui, con una dialettica interminabile, ci affascinava per ore, spaziando dalla letteratura alla poesia, dalla storia alla politica. E questo durò sino alla sua morte e lo ricordiamo negli incontri cordiali con i suoi familiari. Ricordo le sue telefonate, quando voleva farmi partecipe di qualche novità o di qualche inedito, invitandomi a casa sua, accolto dalla garbata e gentile sua compagna, la signora Mena, premurosa con la solita tazzina di caffè. Da questi incontri, tornavo spesso a casa con qualche sua nuova pubblicazione, autografata dalle sue affettuose dediche. La casa di Enzo era meta continua di giornalisti, ricercatori e studenti in cerca di notizie e consigli, per i loro studi o tesi di laurea, e lui, sempre disponibile, cercava di esaudirne le richieste, attraverso il mondo della sua lunga esperienza politica, letteraria e storica, sforzandosi di essere utile nella maniera più disinteressata. La sua casa era sommersa di libri, sparsi su tavoli, mobili, su alte librerie, ripiene di fascicoli, dove erano raccolte ed elencate per anni, argomenti e materie su tutti i campi, innumerevoli suoi scritti ed appunti, che col tempo aveva accumulato; e con certosina pazienza consultava, rivedeva e aggiornava con entusiasmo per sue future pubblicazioni. Oggi questa biblioteca è stata donata dagli eredi all’Archivio di stato, che l’ha numerata e catalogata. Enzo Misefari è stato uno dei “grandi vecchi” della politica meridionale, giornalista, scrittore, parlamentare, uno dei protagonisti per le lotte del socialismo nel Mezzogiorno e delle rivendicazioni e conquiste sindacali.
Enzo, la vita e le opere
Nato a Palizzi nel 1899, inizia gli studi presso i Salesiani di Bova marina e li prosegue presso l’Istituto navale di Napoli, impiegandosi in seguito presso gli uffici del Parastato. Per la sua attività rivoluzionaria e antifascista è costretto a espatriare e laurearsi in ingegneria civile a Friburgo, in Svizzera, nel 1932. Inizia a svolgere attività sindacalista, aderendo al sindacalismo rivoluzionario di Georges Sorel. Durante il ventennio fascista fu confinato a Lipari e incarcerato a Ponza. Fu tra i fondatori del movimento clandestino del Clnp in Calabria, col nome di battaglia Euro Stermini. Caduto il fascismo, dopo la Liberazione, dirige la Federazione provinciale del Pci di Reggio Calabria e, nel 1947, viene eletto a Firenze membro del Comitato direttivo nazionale della Cgil, con Di Vittorio, Lizzani e Achille Grandi. Nel 1958, viene eletto deputato con quasi ventimila voti di preferenza. In seguito distaccatosi dal Pci, a metà degli anni Novanta, diventa animatore del movimento marxista-leninista, dirigendo il settimanale Nuova Unità, nell’ormai leggendario Sessantotto. Abbandonata la politica, si dedicò alla sua prediletta attività di critico e storico, producendo numerose opere, fra cui Le lotte contadine in Calabria, Memorie e antifascismo, Partigiani di Calabria, Il trasformismo molecolare nel parlamento italiano, due interessanti volumi sulla Storia sociale della Calabria, e tante altre, compreso Biografia di un fratello, in memoria del fratello Bruno, “l’anarchico di Calabria”, personaggio abbastanza noto, di cui parlerò in seguito. Un’infinità di personaggi ruotavano intorno al mondo di Enzo, di cui di volta in volta mi raccontava aneddoti e vari episodi. Da un saggio Qualcosa di privato, estratto dal volume Salvatore Quasimodo. La poesia nel mito e oltre (Ediz. Laterza- 1986), Enzo fa rivivere la vecchia fraterna amicizia sopratutto con Quasimodo e poi con Salvatore Pugliatti (in seguito giurista e rettore dell’Università di Messina), Elio Vittorini (in seguito cognato di Quasimodo), Wann’Antò (Giovanni Di Giacomo), docente di poesia e tradizioni popolari presso l’Università di Messina. Insieme a questi anche Asciak con qualche presenza di Giorgio La Pira. In Qualcosa di privato, Enzo Misefari si rammarica, con palese significato di rimprovero verso gli organizzatori, per non essere stato invitato, o quantomeno contattato, in occasione della prima commemorazione del Nobel, presso l’Università di Messina. Lui era l’ ultimo dei viventi della “Brigata di Vento a Tindari” (così si chiamò il gruppo di amici dei giovani intellettuali, di cui alcuni sopra descritti, che frequentavano la casa di Miseferi nel periodo di Quasimodo geometra al genio civile di Reggio Calabria, con tanti scambi d’incontri a Messina), da cui prese il nome la famosa lirica del Nobel “Vento a Tindari”, venuta fuori proprio in seguito ad una gita del gruppo a Tindari. Da vecchio compagno di brigata avrebbe potuto, nei minimi particolari, meritatamente rappresentarlo con un mondo di notizie inedite.
Il rapporto con Quasimodo
In un viaggio a Roma, mi raccontò, fra gli altri episodi, di aver presentato Quasimodo a Corrado Alvaro, per sottoporre al giudizio dello scrittore calabrese alcune poesie e liriche del giovane poeta, per un’eventuale possibilità di pubblicazione. Ma all’uscita della casa di Alvaro, a Piazza di Spagna, Enzo sollecitò Quasimodo di separarsi e disperdersi, poiché si era accorto di essere seguito dall’Ovra, la polizia fascista, che controllava Misefari. Si ritrovarono qualche giorno dopo a Reggio Calabria. In seguito Enzo pregò Quasimodo, trasferitosi in altre residenze, di strappare le lettere della loro corrispondenza, poiché avrebbero potuto comprometterlo, essendo lui antifascista e oppositore del regime. Quasimodo invece le conservò tutte e, molti anni fa, sono state raccolte in un volume dal titolo Quaderni quasimodiani, pubblicate dal Centro nazionale di studi quasimodiani. Nel novantesimo genetliaco di Enzo Misefari, l’Associazione reggina “Nuovo umanesimo”, ha organizzato un convegno di studi, con la partecipazione di Gaetano Cingari, che ha ricordato le battaglie comuni in tanti campi, e Saverio Di Bella (ambedue docenti universitari all’Università di Messina), Anna Caroleo, Gaetano Briguglio e Paolo Arecchi. Gaetano Briguglio ha analizzato il nesso tra storia della Calabria e vita di Enzo Misefari, dalla sua formazione accanto al fratello Bruno, “l’anarchico di Calabria”, e ad uomini come Fausto Gullo, Pietro Mancini (padre di Giacomo) e Francesco Misiano, parlamentare, antifascista perseguitato dal regime e costretto ad espatriare in Russia. Nel settembre del 1991, su mia segnalazione e a sua insaputa, feci in modo che Enzo venisse invitato, come ospite d’onore, nella trasmissione televisiva Maurizio Costanzo show, ma Costanzo gli riservò poco spazio, e, in una mia successiva, feci notare al giornalista l’occasione mancata di approfondire l’intervista su un personaggio che avrebbe potuto dire tanto su Quasimodo e su altre figure del Novecento, con cui aveva avuto modo di rapportarsi. Due anni dopo, Enzo Misefari moriva a Reggio Calabria, e la camera ardente fu allestita nella Biblioteca comunale, con gli elogi funebri del professori Piromalli, Cingari e Reale. Questi ultimi due ne ricordarono le comuni battaglie parlamentari.
Bruno Misefari
Bruno Misefari, fratello caro a Enzo e a tutti i familiari, ha avuto anche lui una vita complessa e travagliata, ed è morto precocemente per un male incurabile. La vita di Bruno Misefari, noto soprattutto come “l’anarchico di Calabria“, è stata descritta dalla moglie Pia Zanolli con un’opera che portava questo titolo, ed in seguito dal fratello Enzo, nel libro Bruno, biografia di un fratello, con più obiettività, particolarità e tanto sentimento. Il libro di Pia Zanolli è stato presentato nel 1972 da Giacomo Mancini con la seguente introduzione: «Oggi di anarchici si sente discutere molto, e spesso dobbiamo notarlo a sproposito. L’immagine della violenza, della “rivoluzione”, intesa come nell’oleografia ottocentesca dell’attentato e della barricata, sono state riprese dalla società consumistica, e dai mass-media, per “eparter le bourgeois”, e per avallare, contemporaneamente, i tristi disegni di chi vuole riportare indietro la storia italiana al suo periodo peggiore, negatore di ogni libertà individuale e collettiva, al fascismo. Sugli anarchici si stanno compiendo, proprio in questo periodo, le speculazioni più vergognose, indegne per un paese, che pure ha avuto in Sacco e Vanzetti e in Pinelli poi, clamorosi esempi delle radici popolari, a volte ingenue, a volte commoventi, di questa parte del movimento democratico».
Bruno, una vita da anarchico
Bruno Vincenzo Misefari nasce a Palizzi nel 1892, da Carmelo Misefari e da Francesca Autelitano. Compare di battesimo è stato un illustre deputato di Serra S. Bruno, il ministro Bruno Chimirri. Il padre di Bruno, unico consigliere del comune di Palizzi, che allora si oppose alla donazione di terre comunali alla baronessa De Blasio, in premio della visita che si era degnata di fare al paese, oltre il nome del padre Vincenzo, gli impose come primo nome Bruno, in rispetto dell’illustre compare Chimirri, conosciuto tramite il segretario comunale De Angelis. Terminate le scuole elementari a Palizzi, Bruno proseguì gli studi presso l’Istituto tecnico Piria di Reggio Calabria, ospite dello zio Vincenzo Autelitano. A Reggio nacquero i primi movimenti operai e il partito socialista; Bruno, seguendo il suo professore Giuseppe Berti, cominciò a interessarsi del rivoluzionismo anarchico, scrivendo anche qualche articolo sul giornale Il Riscatto di Messina, diretto dal socialista rivoluzionario Francesco Lo Sardo. Appena diciottenne tenne la sua prima conferenza in pubblico sul significato del 1° maggio. Nel 1911 venne arrestato, presente il fratello Enzo, per aver parlato in un comizio contro il militarismo, in occasione della celebrazione dell’Unità d’Italia, dopo gli interventi del repubblicano Sardiello e del socialista Gerace, della sinistra moderata. Fece circa sei mesi di carcere. Sempre nello stesso anno, subì un processo per aver diffuso volantini, redatti dal socialista di allora, Mussolini, contro il militarismo e contro la guerra di Libia. Nel 1912, Bruno Misefari si iscrisse alla facoltà d’ingegneria, presso il Politecnico di Napoli, sostenendo, fra gli altri esami, chimica tecnica con la professoressa Bakunin, sorella di M. A. Bakunin, teorico dell’anarchismo. Per proprio conto continuò a seguire i suoi interessi culturali e studi prediletti, oltre la politica, filosofia e letteratura. In un giro di conferenze in Calabria, fece un acclamato discorso contro la “grande guerra”, presso la Camera del lavoro di Reggio Calabria, quella guerra che costò tanto sangue nelle trincee e tanti lutti agli italiani. Il discorso fu riportato dal Corriere della Calabria il 22 settembre del 1914. A Napoli nel 1915, Bruno è tra gli oratori per la commemorazione del 1° maggio, e, dopo l’intervento dell’onorevole Altobelli, fece un breve ed efficace discorso contro l’intervento e l’entrata in guerra dell’Italia, discorso riportato il giorno seguente da Il Mattino di Napoli e dal periodico Il Socialista.
Due volte disertore
Chiamato alle armi, dovette presentarsi al 40° reggimento di Benevento e fece subito presente al suo comandante che gli fosse concesso di essere adoperato come “territorialista” e fisso al deposito, poiché non intendeva e non aveva il coraggio di sparare in guerra e contro un uomo come lui. Invece seppe che stava per essere inviato al fronte e non ci pensò due volte per scappare dal reggimento e rifugiarsi presso un compagno sarto della città. Con un altro compagno cercò di espatriare in Svizzera, ma al confine il 31 marzo 1916 venne fermato e riportato al reggimento di Benevento e messo in guardina. Non si rassegnò e, appena gli fu possibile, ritentò l’espatrio e il 19 settembre del 1917 riuscì a raggiungere il suolo svizzero. I gendarmi, ricevute le informazioni da Reggio Calabria, gli fecero scegliere la città di Zurigo, in cui rintracciò Francesco Misiano, nativo di Ardore, ma cresciuto a Palizzi e quindi conoscente di veccia data, antimilitarista anche lui e anche lui disertore, che al momento lavorava presso la redazione del giornale L’avvenire dei lavoratori.
Con Misiano, Bertoni e Zetkin
A Zurigo, Bruno trovò lavoro presso una fabbrica, limando pezzi grezzi, adattandosi a questo lavoro meccanico. Nel frattempo continuò l’attività politica, tenendo i contatti con gruppi anarchici elvetici e con Giovanni Bertoni, che pubblicava Il risveglio di Ginevra. Il 16 maggio 1918 venne arrestato, insieme a Francesco Misiano e Bertoni, per un complotto, completamente inventato dalla polizia elvetica. In carcere scrisse un libro dal titolo Diario di un disertore, con lo pseudonimo di Furio Sbarnemi (anagramma del suo nome e cognome). Misiani e Bertoni in seguito vennero liberati, mentre lui fu espulso e il 16 luglio 1919 si trovò al confine tra Svizzera e Germania. Preferì recarsi in Germania, dove già si era trasferito Misiano. Prima di lasciare la Svizzera, conobbe e venne aiutato dalla famiglia Zanolli di Zurigo, con la cui figlia Pia si fidanzò, divenendo poi la sua compagna di vita. In Germania, Bruno conobbe Clara Zetkin, l’antimilitarista, tanto esaltata dai rivoluzionari russi da ricevere l’onore di essere sepolta al Cremlino, il 18 giugno del 1933, accanto ai padri della Rivoluzione di ottobre. Clara Zetkin, rivoluzionaria tedesca, fu contro qualsiasi nazione guerrafondaia e combattè sino a morirne. Nei suoi comizi, ovunque ella si recasse, portava con sé il giovane Misefari, presentandolo alle folle: «Questo disertore è italiano, è un figlio del Sud, un figlio del sole, e si è rifiutato di andare in guerra, non ha mai portato un fucile, non ha mai voluto sparare, uccidere». Nel frattempo in Italia il governo Nitti promulgò l’amnistia per i disertori. Bruno decise di rientrare in Italia e, passando per Zurigo, sperava di riabbracciare la fidanzata Pia, ma non riuscì per i vagoni piombati. La potè incontrare insieme ai suoi genitori a Domodossola, dove furono tutti arrestati per diversi giorni. Gli Zanolli furono costretti a ripartire per Zurigo e Bruno, su intervento del fraterno compagno Francesco Misiano (divenuto nel frattempo deputato, dopo essere amnistiato anche lui), nel 1919 riuscì a rientrare in Calabria, dirigendosi a Caraffa del Bianco, dove la sua famiglia si era trasferita per motivi di lavoro.
Le persecuzioni
In Calabria s’incontrò con tanti socialisti della zona ionica, collaborando con essi, ma nel 1920 il Tribunale di Torino emise un mandato di cattura contro di lui, come disertore, come se non fosse in vigore il decreto di amnistia del governo Nitti. Riuscì a far perdere le sue tracce, spostandosi al Nord, e a febbraio dello stesso anno, a Como, sfuggì ai poliziotti che stavano per arrestarlo, raggiungendo Napoli, dove invece venne arrestato e infine liberato, chiudendo definitivamente il conto con il servizio militare. A Napoli pubblicò il periodico L’Anarchico, giornale di ordine sociale e, nello stesso tempo, scrisse articoli per il Libertario, pubblicato a La Spezia. In Calabria fece un giro di conferenze, spostandosi in varie località, Villa S. Giovanni, Melito, Bova, Catanzaro e Reggio, presso la sede della “Lega sovversiva studentesca”, fondata da socialisti e comunisti, fra cui il fratello Florindo. A Napoli continuò i suoi studi presso la facoltà d’ingegneria, al Politecnico, e nell’ottobre del 1921, in piazza Principe Umberto, tenne un grande comizio pro Sacco e Vanzetti, condannati ingiustamente dai giudici americani e continuò questa battaglia, in difesa dei due emigranti, con interventi in Puglia e in Calabria. A Reggio pubblicò il primo organo di stampa anarchica, L’amico del popolo, sequestrato dopo un po’ di tempo. La polizia continuava a perseguitare gli altri fratelli, in particolare Enzo e Florindo. Florindo venne processato nel 1921 per istigazione alla rivolta sui soldati, presso la caserma Borrace di Reggio Calabria. Florindo è stato anche promotore di una cellula comunista al rione Tremulini di Reggio. Subito dopo, il compagno ed amico, Mimmo Minniti, si premurò d’informare Florindo di tenersi pronto per recarsi nella capitale sovietica, per frequentare l’Università leninista di Mosca. Florindo, partito per Palermo, dove un “corriere” lo attendeva per portarlo a Milano, ricevette un contrordine dallo stesso Minniti per rientrare a Reggio, poiché il viaggio era stato rinviato “sine die”. C’era stato a Palermo un conflitto a fuoco tra polizia e comunisti e questi ultimi erano stati messi in fuga. Fra loro c’era Giancarlo Pajetta, che era il “corriere”. Enzo Misefari lo seppe dallo stesso Pajetta, ospite a casa sua, nel suo primo giro elettorale in Calabria, dopo la Liberazione. Controllata e segnalata anche una sorella dei Misefari, Paola, medico-chirurgo, che si recava in Svizzera e in Germania per far pratica e specializzarsi in ginecologia. Nel frattempo il padre dei Misefari venne licenziato dal posto di aiuto-segretario, presso il comune di Caraffa del Bianco, il figlio Florindo cacciato dal Catasto e l’altro figlio, Enzo, licenziato in tronco, poiché si era rifiutato di prendere la tessera del partito fascista. Bruno a questo punto si affrettò a completare gli studi e si laureò in ingegneria civile il 28 agosto del 1923, sempre a Napoli, e decise di ritornare in Calabria con Pia per aiutare la famiglia. Col fratello Enzo aprì uno studio di progettazioni tecniche, scoprendo a S. Trada, nella zona di Cannitello, vicino Villa S. Giovanni, una cava di quarzo e tramite un amico giornalista, conobbe un banchiere e proprietario di terre, Nicola Sales, il quale si fece promotore dell’iniziativa di sfruttare questo minerale, fondando la “Società vetraia calabrese”, con uno stabilimento nella vicina zona di Pezzo: direttore Bruno Misefari, scopritore della materia prima. Nell’ottobre del 1926, in seguito all’attentato a Mussolini, da parte del ragazzo Anteo Zamboni di Bologna, Bruno venne arrestato, tenuto in cella per tre giorni e diffidato di astenersi a qualsiasi attività sovversiva agli ordinamenti dello stato. Nel frattempo l’Associazione degli ingegneri di Reggio Calabria, favoritrice del regime, lo cancellò dall’albo come se non si fosse mai laureato. Subì altre persecuzioni ed anche il confine politico all’isola di Ponza per due anni, mentre la Società vetraria calabrese, per una serie di disavventure, fu costretta a chiudere. Nel 1935, a Davoli, in provincia di Catanzaro, Bruno cercò di riprendere l’attività per l’estrazione del quarzo, poiché in quella zona si potevano sfruttare delle cave, fondando una società, denominata “Davoli”, tramite i titolari Tudini e Valente. Il 10 giugno 1936, Bruno, ricoverato alla clinica romana del professore Bastianelli (oggi Quisisana) per un tumore al cervello, morì due giorni dopo l’intervento all’età di 44 anni, confortato dalla presenza di tutti i familiari, chiamati d’urgenza dalla compagna Pia Zanolli. Così si concluse il dramma di un uomo che aveva preferito disertare, piuttosto che uccidere un altro uomo come lui. Il dramma di un disertore (oggi possiamo definirlo un antesignano dell’obiezione di coscienza), costretto a prendere le armi, ributtato in prima linea, contro la sua volontà, e che morì per un preciso ideale di pace tra i popoli. Concludo ricordando un suo credo umano e sociale: «La società non avanza sulla bocca dei cannoni o sulla punta delle baionette ma l’umanità cammina per virtù del lavoro, dell’amore che affratella tutti i popoli».
Dottor Carmelo Azzarà