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Palmi. La “nominata” di Santo Scidone

  •   Redazione
Pescespada Pescespada

Pochi sanno che fino al primo dopoguerra la “capitale” delle ‘ndrine era Palmi. Espressione della ‘ndrina di Palmi sono stati due personaggi di primissimo piano: Santo Sciruni e ‘Ntoni Chiappaluni, entrambi elevati alla nomina di “capo dei capi” di tutta la ‘ndrangheta. Parlerò di Santu Sciruni (Santo Scidone) il malandrino calabrese per antonomasia, ricordato nel detto popolare: «Chi brutta morti chi fici Sciruni, fici la fini di lu piscicani», quale ammonimento alla presunzione umana. Il suo principale campo di azione era Palmi dove - ovviamente - era il capondrina. L’epoca: quella giolittiana (mi scuso della mancanza di date, ma le mie fonti sono prevalentemente verbali). 

Le sue gesta sono ricordate da ditti e canzoni (una è cantata da Otello Profazio) dove sono esaltati il suo coraggio e la sua capacità dialettica; con l’immancabile epilogo della sua misera fine. Alcune delle sue gesta denotano l’altissimo livello di convivenza che la ‘ndrangheta dell’epoca giolittiana aveva con corpi dello stato e forse anche con i suoi più alti rappresentanti. Si dice che a Santu Sciruni, in certi periodi “costretto” nelle carceri della sua cittadina, la mattina venivano aperte le porte, mentre fuori una carrozza, con tanto di cocchiere, lo aspettava. Lui saliva e come un re - ma in un certo senso lo era veramente - si faceva il giro del paese; salutato e riverito, raccogliendo raccomandazioni e suppliche, dando ordini ai suoi sottoposti e ricevendo le immancabili visite e ambasciate dalle varie ‘ndrine vicine e lontane. 

Certo non tralasciava l’occasione a volte di farsi qualche “giro” di tarantella, da mastro di ballo, insieme ai compagni della consorteria, che nello stesso tempo lo adoravano e lo temevano. L’occasione del ballo (in piazza ed esclusivamente tra uomini) serviva anche a ribadire chi era a comandare e le gerarchie di rispetto. Alla fine della giornata si faceva riaccompagnare presso il carcere, dove la porta si riapriva per lui, che quindi rientrava per passare la notte con gli altri amici carcerati. Tutto ciò era quanto mai epico è funzionale al ruolo del personaggio, che così poteva vantare la persecuzione degli sbirri, manifestare ogni giorno la sua potenza per il fatto di uscire di prigione come e quando voleva e stare insieme con i suoi, sia che fossero fuori o dentro le mura del carcere! E quando voleva dormire a casa sua, certo non glielo impediva nessuno... Un altro dei suoi strabilianti comportamenti riguardava i processi che si svolgevano nel locale tribunale di Palmi. Verso la fine di ogni processo, poco prima della sentenza, imputato, famigliari, avvocati, pubblico, giudici e giurati, guardavano tutti verso una finestra che dava sulla strada. Ognuno con differente sentimento scrutava se in controluce appariva una figura d’uomo a cavallo: Santo Sciruni. Era un segnale per i giudici: l’apparizione voleva dire che l’imputato gli stava a cuore e dovevano assolverlo; la non apparizione significava il suo abbandono al braccio secolare della legge. Pratiche di potere quanto mai appropriate, atte ad alimentare la“nominata” e il mito della sua potenza; la sua apparizione era associata a quella di un angelo liberatore contro i demoni delle galere. 

Il popolo trovava in ciò una rivalsa contro i giudici e la legge, eterna espressione dello stato e dei baroni. I giudici - a quanto si dice - erano solerti e ubbidienti (per paura? Patto inconfessabile o ordini superiori? Bisognerebbe sapere di più, forse tramite una seria ricerca presso gli archivi di quel tribunale). Nella pratica del suo vivere quotidiano a Santo Sciruni non poteva mancare nulla, nemmeno per le minime spese domestiche perché ognuno si “onorava” di portargli a casa la primizie degli orti, dei giardini, delle montagne e del mare. Per quanto altro poteva servirgli, niente gli era negato, nelle putighe o al mercato qualunque cosa indicasse era prontamente incartata («Subito don Santi!») e mandata a casa sua col primo ragazzo che passava. Nessuno chiedeva o riceveva denaro. In determinate occasioni erano altri a ritirare le cose a suo nome, sempre gratis. Tanta pratica, e la sollecitudine corrisposta, travalicava il fattore economico: era il risultato concreto della drittizza di Santu Sciruni, un modello di comportamento e di esercizio del potere malandrino e l’ennesima manifestazione del suo prestigio. 

Con un siffatto andazzo poteva capitare a chiunque di viziarsi, ed è quanto successe anche a lui: a tal punto che tutto gli era dovuto, anche l’impossibile! Così, una volta, trovandosi nei pressi della Tonnara (la marina di Palmi), ed avendo voglia di pesce fresco, non si fece scrupolo di comandare due “marinoti” di andarglielo a pescare; i venditori non ne avevano. I due, che erano poco più che ragazzi, ossequiarono, misero la barca in acqua e corsero a gettare le reti. Sciruni intanto si intratteneva nei paraggi, occupato nelle immancabili relazioni con paesani e forestieri. Dopo qualche tempo tornarono e con tante scuse cercarono di spiegare al capo che non c’era pesce in mare, quella mattina; Sciruni però gli ribadì che dovevano insistere; ritornare in mare, perché gli dovevano portare il pesce! Essi ubbidirono… Tentarono e ritentarono inutilmente, finché si decisero di ritornare a riva nuovamente, ma quando videro Santo Sciruni che li aspettava spazientito non osarono approdare, gli gridarono dalla barca: «Don Santo, perdonateci non c’è pisci!». Ma l’altro, con stizza e male parole gli intimò di insistere ancora. I ragazzi erano stanchi, e disperati pregarono il capo di lasciarli in pace che non ce la facevano più; ma non ripresero il mare aperto: tergiversarono. 

Praticamente disubbidirono. “Incredibile, come osano?” avrà pensato Santo Sciruni che la prese come un affronto inaudito. Lesa malandrineria. Ormai preda della sua stessa presunzione di onnipotenza, insensatamente si tolse i vestiti, si gettò in acqua e con furiose bracciate tentò di raggiungerli. Voleva dargli una subitanea lezione. Non so se riuscì ad arrivare fino ad afferrare la murata della barca (per salire o rivoltarla con i suoi occupanti) ma - secondo i racconti - a quel punto i ragazzi, per difendersi, afferrarono quello che trovarono a portata di mano: uno impugnò l’arpione per i pescecani e, avutolo a tiro, glielo lanciò con tutta la sua forza. Santo Sciruni che non aveva confronti in una lotta sulla terra ferma era ora nudo ed esposto al tiro. L’arpione lo prese, lo trapassò da parte a parte. Finiva così il grande malandrino “dei parmisani”. 

La notizia della sua incredibile fine corse come il vento per tutta la Calabria. La canzone recita che “u mari i Parmi ch’era virdi cupu, i tandu tuttu rrussu è diventatu”.


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