Pasquino Crupi, quando ci fece cantare Bandiera Rossa
- Franco Blefari
Il 24 marzo Pasquino Crupi, innamorato della Calabria e delle classi più umili della sua terra, avrebbe compiuto 76 anni. Eppure, nonostante le tante volte che siamo stati insieme, lo ricordo sempre come l’ultima volta che l’ho visto il 19 agosto del 2013 quando la cultura, più che la politica calabrese, e la gente di ogni estrazione sociale si raccolsero commosse nella sua casa di Bova marina, dove il suo corpo giaceva in una bara.
Aveva accanto tre simboli della sua esistenza terrena, che voleva portare con sé oltre la vita: la copertina del giornale di cui era direttore, che lo raffigurava in una foto insieme ad Otello Profazio; una copia del suo ultimo libro La questione meridionale e l’immancabile sciarpa rossa, che non rappresentava solo il suo credo politico, ma una bandiera di tutte le stagioni della vita, sempre piena di vento, che sventolava in tutte le piazze calabresi, dove la sua parola diventava luce per illuminare la verità che la classe politica voleva (e vuole) insabbiare sempre. Proprio lui, che era nato nel 1940 in una notte in cui mancava la luce, come ebbe a scrivere sua figlia Benedetta nei giorni della sua scomparsa. Ma c’è un’altra immagine che non potrò mai dimenticare: quella del giorno del suo ultimo compleanno, quando stava tagliando la torta accanto al suo nipotino, che da grande – come raccontava orgoglioso il nonno – aveva già manifestato il proposito di fumare il sigaro e bere vino come lui.
C’erano i suoi cinque “poeti in piazza”, in quell’occasione, che lui aveva voluto fossero presenti – come faceva da alcuni anni, nel corso di tante serate estive in giro per le piazze della Calabria – insieme al medico dell’ospedale Riuniti di Reggio, che lo aveva operato a giugno dell’anno prima; un’orchestrina di quattro elementi, con chitarra e mandolino, amici suoi venuti apposta da Catanzaro, e i suoi parenti più stretti, che “sapevano” ma sorridevano per nascondere la terribile verità. C’erano le sue abitudini alimentari squisitamente contadine, su quella tavola imbandita a festa, e c’era, accanto a lui, il suo immancabile peperoncino verde, che richiedeva anche fuori stagione.
Dopo le fotografie di rito, è giunto il momento di tagliare la torta. É stato proprio in quel momento, quando si è fatto fotografare accanto al nipotino, che abbiamo colto tutti il senso più atroce e terribile del momento che stava vivendo. E nel momento in cui l’orchestrina ha incominciato ad intonare le note di Bandiera rossa, l’inno della sua fede politica, che cantava ogni 1° maggio in testa ai cortei per le strade calabresi, ci siamo accorti di cantarla anche noi, davvero tutti, piangendo, intorno a lui, anche se eravamo di idee diverse dalle sue; ma era come se l’avessimo cantata sempre insieme. Ed ora quell’uomo, che avevamo sempre visto accanto a noi, spesso anche in forma privata, per condividere i momenti di gioia e di dolore della nostra vita, e molte volte sottraendo tempo prezioso agli affetti familiari più intimi, forse, ci stava salutando per l’ultima volta. «Professore – gli ho detto, andando via, al termine del pranzo – vi aspetto a casa mia, come mi avete promesso» «Certo, verrò apposta, appena starò meglio, per passare un giorno insieme a casa vostra, come facemmo quella notte d’estate», che poi non era solo un giorno, ma anche una lunga notte fino alle prime luci dell’alba, tra brindisi estemporanei di qualche amico con cui arrivava, e tante poesie che lui richiedeva sempre ai suoi poeti.
Pasquino Crupi, grande meridionalista e massimo critico letterario calabrese (“dopo Antonio Parrello”, come lui stesso ci teneva a sottolineare, quando lo scrittore e saggista di Gioia Tauro era ancora in vita) era anche questo: un uomo che credeva nel sentimento dell’amicizia e amava le cose semplici (e giuste!) della vita, come le poesie in vernacolo, che preferiva scritte, possibilmente, da autori che non sapessero leggere e scrivere: «Perché sono più vere e genuine», diceva, e che solo lui, da grande esperto qual era, sapeva valorizzare e illuminare con la sua critica, nei libri quanto sui giornali e nelle piazze. In una poesia, forse l’unica, di sua composizione, che ci regalò quel giorno, c’era scritto: «La vera poesia è fare bene». Un verso che è stato lo slogan della sua vita.