Peppe Musolino: la “mala sorti” e le verità sconosciute
- Carmelo Azzarà
Il giustiziere della montagna: «...'eppi a luttari cu la mala sorti»
Fu il professore Casile, presidente del circolo Rhegium Julii, ad avermi invitato all’incontro-dibattito sul brigante Giuseppe Musolino tenutosi più di dieci anni fa, e fu Otello Profazio che volle che io fossi presente, poiché egli era a conoscenza che custodivo alcune verità, oltre che su Musolino anche su un altro personaggio di Roccaforte del Greco legato alle avventure del brigante: Rocco Perpiglia.
Di lui, alcuni libri hanno parlato con poca chiarezza e qualcuno in maniera malevola in buona o in cattiva fede, o per mancato approfondimento sui fatti reali. Ricordo Otello Profazio quando studente liceale, pendolare col treno verso le scuole di Reggio Calabria (io arrivavo da Melito Porto Salvo e lui da Pellaro), scendeva alla stazione ferroviaria con l’aria trasognata; forse sin d’allora, nella sua mente, cercava ispirazioni per le sue ballate, pervase dalle tradizioni popolari che da bravo cantautore ha esportato in tutto il mondo, facendo rivivere con nostalgia il ricordo del Sud ai nostri connazionali. Ma ringrazio Otello Profazio soprattutto per averci fatto ascoltare la voce autentica del brigante, che in tarda età tra una ballata e l’altra narra l’amara storia della sua vita e del dolore dei familiari, soprattutto della madre.
I falsi testimoni di Vincenzo Zoccali
La registrazione della voce del brigante è stata fatta dal professore Neri presso l’ospedale psichiatrico di Reggio Calabria, di cui era primario e direttore, e dove Musolino era assistito più che ricoverato. Il titolo che il circolo ha scelto per promuovere l’incontro,“...‘eppi a luttari cu la mala sorti”, racchiude tutto il dramma di quest’uomo. Infatti la “mala sorte” di Musolino fu l’essersi imbattuto, nel fiore degli anni e per le strade di Santo Stefano d’Aspromonte, suo paese natale, nel prepotente e provocatore Vincenzo Zoccali, compaesano, che con l’aiuto di falsi testimoni per un ferimento di cui non aveva colpa gli rovinò la vita.
Significativo un caso: quando un testimone, durante il processo, affermò di aver sentito Musolino minacciare lo Zoccali di volerlo ammazzare, il brigadiere di Santo Stefano e il capitano di Reggio, non convinti delle dichiarazioni perché tanti riferimenti non quadravano, calcolando le distanze delle voci, gli contestarono che era impossibile che avesse sentito la voce di Musolino.
Il testimone: «Signor capitano, io ho un udito fine, riesco a sentire le campane di Laganadi!» (un paese che dista parecchi chilometri da Santo Stefano d’Aspromonte).
Al che il capitano ironicamente: «Scommetto che riuscite a sentire anche le campane della basilica di San Pietro di Roma».
Purtroppo il verbale dovette essere redatto. E la mala sorte fu la classica conclusione della difesa da parte dell’avvocato Biagio Camagna «Clemenza per il mio assistito». Il presidente della Corte di Reggio Calabria, Felice Nazzaro, giudice noto per le sentenze esageratamente severe, condannò Musolino a ventuno anni di carcere il 27 settembre del 1898. Rinchiuso nelle carceri di Gerace (oggi Locri), poco tempo dopo riuscì ad evadere attraverso un buco fatto sul muro sotto il letto, con l’aiuto di alcuni amici che, strimpellando una specie di ritornello, gli indicarono quale fosse la parte debole della struttura del carcere, e il punto esatto dove scavare per prepararsi la fuga.
Da questa evasione iniziò la vendetta del brigante, e la ricerca di Vincenzo Zoccali, dei falsi testimoni, e del presidente Felice Nazzaro, reo di averlo condannato ingiustamente.
La condanna all’ergastolo e la grazia
Lo storico Enzo Misefari, nel libro Il socialismo in Calabria, spiega le ragioni che portarono alla mancata difesa dell’imputato da parte dell’avvocato Camagna, dovuta all’orientamento politico della famiglia Musolino favorevole alla corrente dell’avvocato Tripepi e non alla sua.
Altrimenti non si sarebbe potuto spiegare come un principe del foro reggino, quale era l’avvocato Camagna, non avesse saputo dimostrare, durante l’udienza, che non bastava un berretto perso in una precedente lite e dei falsi testimoni per condannare un innocente. E la mala sorte si concluse, per Musolino, dopo vari omicidi, tentati omicidi e ferimenti (molti non voluti), sempre alla ricerca di Zoccali e degli altri accusatori, col secondo arresto ad Acqualagna, nei pressi di Urbino, da parte di due carabinieri (uno era il padre di Enrico Mattei, il fondatore dell’Eni).
La causa fu chiddu filu: il filo spinato in cui inciampò, restando impigliato, e dove fu raggiunto e bloccato. Il ricordo di quest’episodio lo tormentò a lungo, poiché aveva intrapreso una strada fuori dalla Calabria, e forse si era rassegnato a far perdere le sue tracce espatriando. La sentenza di Lucca lo condannò, nel 1902, alla seconda e definitiva pena all’ergastolo e a dieci anni di segregazione in un angusto e inumano spazio, che lo minarono nel fisico e nella mente.
Spazio tomba che il dottor Romeo, suo pronipote, ha visitato restando inorridito. Fu una vendetta penale dello Stato perché Musolino lo aveva deriso, e aveva leso la Benemerita con l’uccisione del carabiniere Ritrovato, che stava per sparargli col moschetto a Precacore, dopo la rocambolesca fuga dalla grotta di Mingioia?
É il professore Panuccio, insigne avvocato e docente universitario, a spiegarci i motivi della dura segregazione inflitta al brigante dalla Corte d’Assise di Lucca nel 1902. Dopo la condanna all’ergastolo la famiglia Musolino, persa ogni speranza di una pena più mite, crollò nel dolore, e crollò soprattutto la giovane e coraggiosa sorella Ippolita, che lo aveva sostenuto nella latitanza, in ogni anfratto dell’Aspromonte, travestendosi anche da uomo per portargli viveri, vestiti, medicinali, e l’appoggio della famiglia e degli amici fidati. L’angoscia indescrivibile per la sorte del fratello, sepolto in carcere per una colpa iniziale che non aveva commesso, spense la giovane vita di Ippolita, morta di crepacuore, poco tempo dopo, all’età di ventotto anni.
Nel 1933, Giuseppe Travia, uno degli amici di Vincenzo Zoccali, dall’America dove era espatriato, confessò in punta di morte di essere stato lui, quella sera a Santo Stefano d’Aspromonte, a sparare i colpi che furono la causa della condanna di Musolino a ventuno anni di carcere col processo di Reggio Calabria nel 1898; e quindi dopo la latitanza e gli omicidi, all’ergastolo al processo di Lucca.
Soltanto nel 1947 Palmiro Togliatti, primo ministro di Grazia e giustizia, con l’amnistia, concesse la grazia a Musolino, consentendogli di raggiungere la sua terra e trovare sistemazione presso l’ospedale psichiatrico di Reggio Calabria, dove gli fu riservata una camera continuamente controllata da un infermiere. Il dottor Romeo conserva il telegramma originale inviato ai familiari da Palmiro Togliatti per la grazia e la libertà del loro congiunto.
I briganti nella letteratura
Quando fu pubblicato il libro del dottor Romeo dal titolo Giuseppe Musolino, il giustiziere dell’Aspromonte, gli telefonai per complimentarmi con lui, facendogli presente che la definizione di giustiziere e non di brigante, come solitamente leggiamo nelle intestazioni delle copertine di molti libri o su articoli di vari giornali, era l’affermazione ostinata di Musolino che non si riteneva un brigante, considerandolo termine dispregiativo, che non rientrava nella sua natura.
Di briganti che imperversavano nelle varie regioni d’Italia ne abbiamo sentito parlare e letto sui libri. Molti, nel Meridione, dopo l’Unità d’Italia, furono favoreggiatori del vecchio regime, in opposizione al nuovo Regno sabaudo ed in opposizione alle nuove tasse e alle speranze venute meno con la nuova realtà sociale, tanto da far dire al popolino: «Si stava meglio quando si stava peggio».
Realtà sociale, politica ed economica che scaturì nell’eterno problema della “Questione meridionale”. In Maremma Fra Diavolo, in Romagna il “Passator cortese” del Pascoli, in Calabria il brigante Moscato, detto U vizzarru per sottolineare il suo carattere non facile. Quest’ultimo fu ucciso da una donna, mentre altri briganti furono impiccati o uccisi dai carabinieri. Qualcuno fu definito “brigante galantuomo” perché difendeva i poveri.
Il Pascoli definisce Stefano Pelloni “Passator cortese, re della strada re della foresta” poiché come mestiere faceva il traghettatore, mentre “cortese” credo sia solo una licenza poetica del Pascoli, in quanto non si può definire tale chi uccide per rubare, razziando poveri villaggi. segue a pag. 28 e 29 Anche al brigante Musolino, il Pascoli, docente presso la vicina Università di Messina, dedicò un’ode e, in questo caso, la cortesia poetica fu pertinente.
Giuseppe Musolino fu un brigante?
Giuseppe Musolino non aveva nulla a che fare con i precedenti briganti. Il suo comportamento durante la latitanza conferma questa realtà. Quando affrontò la donna che l’aveva denunciato ai carabinieri, era deciso ad ammazzarla, ma la povera vecchia gli chiese perdono e, nel disperato estremo tentativo di salvezza, implorandolo, gli disse: «Pensa se fossi tua madre!». Al nome della madre, Musolino desistette dal suo atto impulsivo e si allontanò risparmiandole la vita.
Un giorno, nascosto su un albero, mentre le forze dell’ordine lo stavano cercando, scorse Wenzel, il capo della polizia mandato da Roma per arrestarlo, e lo tenne sotto tiro del suo fucile per un bel po’, sino a quando lo vide allontanarsi con i suoi uomini. Non gli sparò, ritenendo che quell’uomo non facesse altro che il suo dovere, e gli mandò a dire che avrebbe potuto cogliere l’occasione per finirlo e non lo aveva fatto.
A un delatore, che d’accordo con i carabinieri si era impegnato di consegnargli Musolino, vivo o morto, utilizzando anche il fucile fornitogli dall’Arma, sorpreso nel suo terreno, gli sparò alle gambe per punizione dicendogli che gli risparmiava la vita per non lasciare orfani i suoi numerosi figli.
Le verità sconosciute
Le leggende/verità sono tante e tanta è stata l’onestà di quest’uomo che, in qualche occasione, rifornendosi di frutta o altro in qualche terreno in cui era costretto a cibarsi, lasciava i soldi sul pianerottolo di casa dei contadini. Almeno così si racconta.
Un brigante atipico, un brigante senza brigantaggio, vittima di una congiura; un brigante amato dal popolo, così ben descritto dal professore Pasquino Crupi, prorettore dell’Università Dante Alighieri di Reggio Calabria, nella sua erudita esposizione.
Ritornando al libro del dottor Romeo, alla mia domanda su cosa lo avesse spinto a scrivere un’altra biografia sul famoso prozio, oltre all’ispirazione che può avere un consanguineo, egli mi fece presente che, avendo letto molti libri su Musolino, aveva trovato non solo numerose discordanze su fatti, persone, luoghi ma soprattutto più di una falsità. Da qui il desiderio di narrare la storia vera, quella ascoltata e respirata nell’ambito familiare, attingendo dai ricordi vivi e veritieri dalla viva voce della nonna materna, Anna, l’altra sorella di Musolino.
Ed in questo sono perfettamente d’accordo con lui, specie dopo l’uscita degli ultimi libri sul brigante, dove sebbene sia descritta tutta la storia di Musolino con particolarità si riscontrano tante storpiature, fatti travisati, attinti da fonti non attendibili, o da verbali, mi sia consentito dirlo, non obiettivi per le frettolose e superficiali ricerche dei carabinieri di allora.
Si leggono cognomi e luoghi con vocali scambiate. Mi ricollego al personaggio di Roccaforte del Greco, Rocco Perpiglia, per precisare alcune falsità di una narrazione non reale sulla sua natura e sulla sua condotta nei rapporti col “brigante”. In un libro sul Musolino, Rocco Perpiglia viene presentato in maniera offensiva e aggettivato come analfabeta, ignorante e scapestrato; accusato di un piccolo furto e di fare il doppio gioco con i carabinieri.
Ma il fatto più grave e quando l’autore scambia una sorella di Rocco Perpiglia, Potenziana Perpiglia, donna dalle grandi virtù morali e cristiane, sposata con Fortunato Modafferi, e residente a Roccaforte col marito, con Angela Porpiglia (con la “o”), di San Roberto, donna lasciata dal marito che si era data alla bella vita per sopravvivere, e che ebbe diversi rapporti con Musolino. Donne con nomi, cognomi e paesi diversi.
A conferma di ciò ho un documento del comune di Roccaforte che conferma le generalità di Potenziana Perpiglia, sorella di Rocco Perpiglia. Una per una contesterò queste maldicenze. Rocco Perpiglia non era “analfabeta” poiché, oltre ad aver frequentato le scuole elementari a Roccaforte, veniva seguito privatamente da un prete che risiedeva in un’ala della fattoria del padre, a Monaca di Roccaforte.
Ho qui con me alcune lettere autografe, di valore legale, che dimostrano che scriveva correttamente e con una chiara calligrafia, e siamo alla fine dell’Ottocento quando l’analfabetismo in Calabria e altrove raggiungeva il 75%.
Rocco Perpiglia non era “debole di costituzione”, noi lo ricordiamo saldo come una quercia e, all’età di diciassette anni, conosceva le montagne come le sue tasche, tanto da sfuggire a tutte le imboscate delle forze dell’ordine, che lo consideravano favoreggiatore di Musolino.
Rocco Perpiglia non fu mai “denunciato per un piccolo furto”: ci sorprende questa insinuazione, mia madre ricorda che fu incolpato proprio da quelle persone che il furto lo avevano commesso, è tutto fu chiarito nella caserma dei carabinieri con la testimonianza dei possidenti delle vastissime proprietà, in cui il padre era fattore. Scapestrato? Forse perché gli piacevano le donne? O perché andava a caccia? O perché andava a trovare gli amici da un paese all’altro? Comportamento lecito per un adolescente che, dopo aver aiutato il padre nei campi, viveva la sua gioventù con allegria. Faceva il doppio gioco coi carabinieri?
Rocco Perpiglia fece credere loro questo, naturalmente, altrimenti lo avrebbero incolpato e arrestato come favoreggiatore. Ma uno scrittore che si rispetti, nel trattare una storia vera, dovrebbe indagare e contestualizzare gli eventi e, a conferma delle sue ricerche, dovrebbe trovare testimonianze di eredi o altre fonti dirette, da cui ricavare notizie attendibili. Uno scrittore è sempre responsabile degli argomenti che tratta, specie se sono temi delicati che potrebbero intaccare la moralità e la dignità di un uomo.
La latitanza a Roccaforte del Greco
Nelle montagne tra Bagaladi e Roccaforte del Greco, Musolino fu ospitato e nascosto nella fattoria di Giovanni Perpiglia, padre di Rocco Perpiglia, a Monaca di Roccaforte del Greco. Il figlio Rocco, che non aveva ancora compiuto 17 anni, s’immedesimò nella tragedia di Musolino, disperato per la sua sorte infelice, in una continua fuga da un nascondiglio all’altro, sempre in agguato per sfuggire alle forze dell’ordine. Rocco Perpiglia sentì il bisogno di aiutarlo, convinto come tutti dell’ingiustizia subita dal brigante e cercò in tutti i modi di proteggerlo, impegnandosi a nasconderlo nei luoghi più impervi e negli anfratti irraggiungibili, dimostrando un coraggio tale da meritarsi la stima e la fiducia di Musolino.
Fra le altre cose, Rocco cercò di stare lontano dai parenti di una donna con cui aveva avuto dei rapporti intimi e Musolino gli garantì la sua protezione: «Tu non hai colpa - gli disse - non hai usato violenza a questa donna, non era minorenne e lei è stata consenziente nei vostri rapporti, finché sei con me nessuno deve osare toccarti!». Rocco Perpiglia ormai affiancava il brigante e, in questa protezione scambievole, era diventato egli stesso un latitante. Dopo i nascondigli a Roccaforte (di giorno lo aveva nascosto anche nel cimitero del paese), lo aveva portato a Chorio di Roghudi, ospiti di donna Giulia Romeo. Intercettati dai carabinieri, si trasferirono nella zona di Africo, nascondendosi nella grotta di Mingioia.
Nella grotta di Mingioia
In questa grotta si credettero sicuri, perché protetti da un certo Princi che gli procurava cibo e altro, ma fu proprio questi a tradirli, allettato dalla grossa taglia che incombeva sui due latitanti.
Il Princi, difatti, si mise d’accordo con le forze dell’ordine che, sotto la guida del capo della polizia Wenzel, accerchiarono la zona in grande numero; Wenzel era convinto che questa volta avrebbe catturato il brigante e chi era con lui. Fornirono il Princi di una dose di oppio che egli doveva mescolare a dei maccheroni da portare alla grotta, cibo che avrebbe dovuto anestetizzare i due fuggiaschi per poi essere arrestati facilmente al segnale convenuto. Il Wenzel, frettoloso, intimò ai due di arrendersi, facendo presente che non avevano scampo.
Musolino e mio nonno, Rocco Perpiglia, capirono di essere stati traditi, anche per l’atteggiamento strano del Princi che, dopo aver consegnato la pietanza, non vide l’ora di allontanarsi. Anche il sapore dei maccheroni li aveva insospettiti e subito scaricarono le loro armi sul fuggitivo, ferendolo a una gamba e a una mano. Riuscirono a sfuggire disperatamente all’agguato, allontanandosi dalla grotta in un frastuono di colpi di fuoco che arrivavano da tutte le parti e da tutti gli angoli, tra pallottole che s’incrociavano e che sentivano fischiare dietro le orecchie.
Si salvarono miracolosamente, rimanendo illesi, disperdendosi attraverso le montagne.
Il Princi si salvò, nonostante le ferite riportate e, dopo la guarigione, tra ambigue dichiarazioni e finti pentimenti, non smentì la sua natura di traditore. Inoltre si giustificò con la polizia daffrmando che l’oppio non aveva funzionato perché scaduto, e quindi non si era ottenuto l’effetto sperato.
Ma l’oppio era puro ed era stato fornito dal farmacista di Bova. L’essere sfuggiti rocambolescamente all’accerchiamento, preparato con grande dispiegamento di forze, aumentò la fama dell’imprendibilità dei due ricercati in tutto l’Aspromonte ed in tutti i paesi della Calabria, e i giornali ne alimentarono la leggenda, mentre in tutte le regioni d’Italia si cominciò a parlare di questo sfortunato brigante galantuomo.
Dopo questi avvenimenti, come abbiamo detto in precedenza, Musolino fu arrestato ad Acqualagna, mentre Rocco Perpiglia, sorpreso nei pressi di Monaca di Roccaforte, non lontano dalla fattoria del padre, sebbene abbia cercato di sfuggire ai carabinieri di Bagaladi, fu braccato e portato alle carceri di Reggio Calabria.
L’assoluzione di Rocco Perpiglia
Alla data dell’inizio del processo, Rocco Perpiglia si è ritrovato al banco degli imputati, a fianco a Musolino e ad altri due favoreggiatori della zona di Santo Stefano.
Il processo durò a lungo con un certo numero di testimoni e con grande clamore e risonanza nazionale, con numerosi giornalisti, curiosi e sostenitori, molti venuti dall’estero, fra cui alcune donne dall’Inghilterra.
Il processo si concluse con una sentenza prevedibile: ergastolo per Musolino e dieci anni di segregazione. Rocco Perpiglia venne assolto quello stesso giorno, mentre altri due favoreggiatori rimasero in carcere per reati minori. Alle domande da parte del presidente della Corte sull’uccisione del carabiniere Ritrovato, ferito a morte nelle campagne di Precacore, dopo la fuga dalla grotta di Mingioia, Musolino scagionò Perpiglia sostenendo che non aveva sparato, poiché non aveva armi, e lo aveva seguito incoscientemente nella latitanza.
Finito il processo Rocco Perpiglia fu accompagnato dai carabinieri alla stazione ferroviaria, mentre la gente si accalcava lungo le strade, porgendogli caramelle, cioccolate e qualcuno anche un fiasco di vino.
Giunto a Reggio andò a trovare i fratelli Sergi, possidenti del luogo, che aveva incontrato nel carcere di Reggio Calabria (avevano ucciso l’amante del padre, ma poi assolti in quanto nessuno aveva confessato il delitto), e che gli avevano augurato l’assoluzione invitandolo, al ritorno, ad andare a trovarli. Lui non aveva speranze di assoluzione e, quando si trovò a Melito, mantenne la promessa e fu loro ospite. Uno dei fratelli, Silvestro, lo accompagnò a Roccaforte con una carrozza, dove fu accolto con grande soddisfazione.
Ci siamo ritrovati col dottor Romeo, pronipote di Musolino, sempre con l’antica amicizia e il rispetto scambievole tra le famiglie, dopo un secolo e più, per parlare della vicenda dei nostri congiunti, di cui in questo periodo se ne sta discutendo in convegni e dibattiti, rivisitando la figura del brigante, sotto altri aspetti che non sono solo banditeschi. Dalla sua avventura giovanile Rocco Perpiglia, dopo le varie interviste dei giornalisti che salivano a Roccaforte per trovarlo, non volle che si facessero più domande, ed in famiglia non dovevano circolare giornali o romanzetti su Musolino, dove anche lui era coinvolto.
I dischi in circolazione venivano ascoltati dai figli con commozione, e sempre in assenza del padre che, essendo un uomo pratico, non amava le esaltazioni, e perché si rattristava al pensiero dell’ingrato destino del suo fraterno amico che marciva in carcere. Dopo pochi anni dall’assoluzione al processo di Lucca, Rocco Perpiglia emigrò in America e vi ritornò qualche altra volta, lavorando prima in un altoforno poi come addetto al controllo degli operai in un reparto. Aiutò e protesse, nei limiti del possibile, amici, compaesani e conoscenti, di cui qualcuno taglieggiato dalla mafia di New York.
Solo in tarda età ci rivelò qualche verità sui suoi rapporti con Musolino: noi nipoti non osavamo azzardare alcuna domanda sul suo passato, temendo le sue arrabbiature. Non voleva parlarne, per lui erano ricordi lontani, esperienze o inesperienze di gioventù. E, sempre in tarda età, ci rivelò dei particolari sulla malavita di New York e di qualche incontro con il clan della famiglia Filastò, primi cugini di Giuseppe Musolino. Ricordava le grandi trasformazioni e i progressi della città, le metropolitane, le grandi costruzioni, i ponti e le altre imprese, merito anche di un grande italiano, Fiorello La Guardia, che era stato sindaco di New York.
Mio nonno, tra la Calabria e l’America
Con i soldi che aveva guadagnato in America, aveva esteso le sue proprietà, impiantando un palmento per la lavorazione dell’uva e la produzione del vino, dove confluivano i vigneti delle zone limitrofe.
La moglie, Caterina Sergi, una ragazza di Roccaforte che aveva sposato all’età di 24 anni, era figlia di Marco Sergi, che era stato garibaldino, combattendo anche nella famosa battaglia di Bezzecca, nel Trentino, nel 1866, allorquando Garibaldi fu costretto a inviare al Comando piemontese il famoso telegramma “Obbedisco”. Dalla moglie Rocco ebbe tre figlie femmine e tre maschi, di cui voglio ricordare Marco, noto a livello nazionale e internazionale nell’ambito della Resistenza e della Liberazione, combattente nelle brigate garibaldine nella guerra civile di Spagna e durante la Resistenza nella guerra partigiana in Liguria e in Emilia.
A Roccaforte del Greco gli è stata dedicata una piazza. Le tre figlie femmine, sposatesi ad un’età inferiore ai 19 anni, si trasferirono fuori Roccaforte: Domenica la più grande era mia madre e quindi Rocco Perpiglia era mio nonno. Per qualcuno potrebbe sembrare un biglietto da visita infelice, ma sono stato e sono sempre orgoglioso di esserne un nipote, cercando di esserne degno, non per la fama delle disavventure con Musolino, ma per la rettitudine della sua vita, dedicata al lavoro delle sue terre e alla famiglia.
La sua casa fu sempre ospitale con tutti e veniva spesso consultato per appianare divergenze, mentre i forestieri lo tenevano in considerazione per i loro problemi in paese.
Dopo la Liberazione fu consigliere nell’amministrazione comunale di Roccaforte col sindaco Idoneo Pangallo, e addetto alla distribuzione di viveri, durante il periodo della carestia di questi. Mai lo abbiamo visto giocare a carte, mai che frequentare un’osteria, mai abbandonbarsi ad una bestemmia, se non “santo diavolo”, specie quando si arrabbiava (e si arrabbiava di brutto) e batteva il piede sul pavimento di legno, che rimbombava facendoci tremare. Sin da piccolo, nel periodo estivo, mia madre mi mandava dai nonni affidandomi a dei conoscenti che rientravano in paese. Passando per Monaca di Roccaforte mi raccontavano che in quella fattoria mio nonno nascose il brigante Musolino.
Col passare degli anni mi sono sentito ripetere: «Tuo nonno è un uomo di rispetto, un uomo d’onore», come si diceva una volta e come tutt’oggi si continua a dire e qualcuno sotto altro aspetto e sotto altra visione intendeva, e s’intende tutt’oggi, qualche altra cosa.
Soltanto... un uomo d’onore
Rocco Perpiglia fu un nonno che si alzava presto la mattina, spesso a notte fonda, per raggiungere le sue terre e spesso passavo lunghe giornate al suo fianco. Dopo una dura giornata di lavoro, col solito fucile sulle spalle e con il carniere con qualche pernice o qualche lepre, che scovava la mattina presto nei luoghi a lui noti, rientrava a tarda sera.
Gli fu sempre rinnovato il porto d’armi e fu un noto ed esperto cacciatore, oltre a essere un preciso tiratore. Al rientro dalle campagne, mia nonna vedeva arrivare in anticipo il suo asino o il suo mulo, che conosceva la strada e si fermava di fronte alla stalla, a pochi metri dall’abitazione, mentre lui s’intratteneva in piazza per qualche chiacchiera con gli amici.
Molti anni fa, passando per Marina di Massa, andai a trovare l’ultimo suo colono, un certo Francesco Squillace, trasferitosi in quella zona, che mi raccontò dell’onestà di mio nonno, nei rapporti di mezzadria, dei ricavati e della vendita del bestiame, di cui nella valutazione del prezzo, non osava chiedere una lira in più, poiché non voleva che si dicesse che Perpiglia pretendeva oltre il giusto e il dovuto.
Con questi sentimenti voglio ricordarlo. Con una vita impeccabile e integerrima come la sua, apparteneva alla mafia? In una ristampa di un vecchio libro Musolino il bandito d’Aspromonte di G. De Nava (Franco Pancallo Editore), con un’introduzione del professor Giuseppe Italiano, nella copertina posteriore si legge: “Una cosa è certa: Giuseppe Musolino non apparteneva all’onorata società, né alla ndrangheta, né alla mafia. Egli era soltanto un uomo d’onore”.
È così era stato mio nonno, come anche i pochi intimi amici e fedeli di Musolino. Dopo un po’ di tempo della presenza di Musolino all’ospedale psichiatrico di Reggio Calabria, mio nonno espresse il desiderio di andare a trovarlo. Lo accompagnarono il figlio Giovanni e mio padre, ed io li seguii con grande ansia e curiosità che ispirava la personalità del brigante.
All’ospedale di Reggio
Arrivati di fronte alla palazzina, all’interno dell’ospedale, dove lui dimorava, ci indicarono una scala esterna che portava alla sua camera al primo piano. Il suo infermiere, seduto lungo la scala, lo avvisò della nostra presenza: «Don Peppino, un amico di Roccaforte vi vuole salutare».
Musolino apparve sulla porta con la sua figura alta e con una barbetta pirandelliana, guardandoci con curiosità. Mio nonno avvicinatosi: «Sono Rocco Perpiglia di Roccaforte del Greco, ti ricordi di me?». Al che Musolino «Sei troppo giovane per essere lui!» (in verità mio nonno non dimostrava gli anni), «Sono proprio io», replicò mio nonno. Si avvicinarono e si abbracciarono. Con la cadenza del suo paese, che ancora conservava, Musolino gli disse: «Sei venuto a trovarmi, siediti» indicando una panca, su cui erano sparse tanti fogli con scarabocchi, figure e strani disegni con fantasie astronomiche, che Otello Profazio mi ha fatto presente essere oggi in suo possesso, omaggio del professor Neri, insieme alla registrazione, fatta al brigante ed inserita nella ballata da Otello Profazio.
Musolino e Perpiglia in quell’incontro si scambiarono qualche notizia, mio nonno gli parlò della sua famiglia e al saluto Musolino volle accompagnarci lungo il viale sino al cancello d’uscita.
Li osservavamo mentre ci precedevano affiancati, ed ognuno di noi meditava su questo incontro dopo oltre cinquantanni, da quando si erano separati al processo a Lucca nel 1902.
Al cancello prima di separarci, mio nonno lo invitò di andare a trovarlo a Roccaforte e passare una giornata insieme. Musolino lo ringraziò e poi, voltandosi di fianco, disse «Ho sempre questo fra i piedi», riferendosi all’infermiere che lo seguiva come un’ombra. Mio nonno replicò: «Non c’è problema, invitiamo pure lui e ci facciamo fare un bel pranzo a base di maccheroni con la carne di capra o di agnello delle nostre montagne». A questo punto Musolino si soffermò e si guardarono.
Sono certo che nella loro mente sia passato come un sogno il ricordo dei maccheroni con l’oppio del traditore Princi, nella famosa grotta di Mingioia, ad Africo. Si abbracciarono e non si videro più. Pensando alla mala sorte di Musolino, mi viene in mente Gente in Aspromonte di Corrado Alvaro dove l’Antonello, dopo tante angherie subite, cercò di farsi giustizia da sé e, quando vide puntati addosso i fucili dei carabinieri, buttò il suo e andò loro incontro «Finalmente - disse - potrò parlare con la Giustizia, che c’è voluto per poterla incontrare e dire il fatto mio!». Battuta molto amara. Antonello incontra sì la tanto cercata Giustizia, ma nella veste della fredda Legge, la quale non potrà giudicarlo altrimenti che come un fuori legge, un incendiario, un brigante.
Nell’aula giudiziaria, durante il processo, non ci sarà posto per le ragioni profonde che l’avevano mosso a farsi giustizia da solo. Proprio come accadde al processo di Lucca, nel 1902, a Giuseppe Musolino di Santo Stefano d’Aspromonte, ormai assolto dal popolo e ora speriamo anche dalla Storia.
Dott. Carmelo Azzarà