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Reportage. La signora Francesca e la storia di Ferruzzano

  •   Gianfranco Marino
Reportage. La signora Francesca e la storia di Ferruzzano

I bivi nella vita sono tanti, lo abbiamo già detto, così come tante sono le scelte differenti e i piatti della bilancia su cui soppesare i risultati. Ci eravamo salutati circa un mese fa con qualche interrogativo, col dilemma su quanto e quale piatto si fosse abbassato di più nella bilancia della storia di Bova e Ferruzzano uniti da una data, quella dell’11 marzo 1978, quando un terremoto fece incontrare i loro destini poi divisi nuovamente, a vent’anni di distanza, da scelte differenti.

Nella puntata precedente abbiamo detto di Bova, anche qua, al pari di Ferruzzano, nonostante le differenti strade intraprese, i rimpianti non mancano e sono quelli della tanta gente che precipitosamente, in preda alla moda del momento o in qualche caso costretta da contingenze irrimediabili, ha deciso di migrare di qualche chilometro andando a rimpinguare le fila di una costa sempre più anonima e imbruttita. Come dicevo, il percorso di Bova nell’ultimo trentennio, ma ancor di più negli ultimi vent’anni, lo conosco bene, tanto bene da poter valutare la ricaduta di una scelta sicuramente lungimirante, quella di utilizzare quei famigerati quattro miliardi e mezzo del vecchio conio destinati dalla legge 2/78 alla ricostruzione in altro sito e restituiti dalla legge 3/97 per ristrutturare l’esistente, per ridisegnare con pazienza e olio di gomito una geografia urbana imposta da oltre trent’anni di cementificazione selvaggia e indiscriminata. Dal cemento alla pietra il passo non è molto breve ma è di assoluto impatto, è un salto che regala a Bova non solo un futuro ma anche un importate ruolo regionale di testimone del cambiamento. Da Bova faccio ancora una volta un salto a Ferruzzano, proprio da quelle viuzze avevo interrotto un mese addietro il mio racconto.

Ferruzzano è luogo dal fascino straordinario, che sembra nascondere sempre qualche aspetto che non sei riuscito a cogliere, qualche aspetto che va indagato, approfondito, studiato, perchè, si sa, le storie dei luoghi, delle persone che li popolano e delle loro scelte, quelle che cambiano il corso della storia, vanno sempre contestualizzate, capite e analizzate se si vuole comprendere a pieno i processi che le hanno partorite. A qualche giorno di distanza dalla puntatina al vecchio borgo rimetto in moto la macchina e mi dirigo ancora una volta a Ferruzzano, questa volta però mi fermo alla marina verso la fine del paese, parcheggio scendo e busso ad una porta, una delle tante che costeggiano a pochissimi metri di distanza la ss 106 ionica.

Mi accoglie la signora Agata, una che di Ferruzzano sa davvero tutto, glielo leggi negli occhi, due occhi che quando ti guardano sembrano voler proiettare la sua personale storia, e quella di quel centro, su uno schermo virtuale. Mi basterebbe già questo, ma in realtà la sorpresa deve ancora arrivare. Entro in casa e trovo il camino rigorosamente acceso, d’altronde siamo sempre a febbraio nonostante lo Scirocco, come spesso capita a queste latitudini, abbia sostituito da qualche giorno il Grecale. Davanti al camino trovo seduta ad attendermi la signora Francesca, classe 1920, due occhi vispissimi, profondi, sinceri e umili, come quelli di chi sa che dalla vita nonostante l’età c’è sempre qualcosa da imparare. Mi ero fatto annunciare dalla figlia cui avevo spiegato il motivo della visita e la signora non perde tempo, dopo avermi offerto un caffè mi invita a chiedere cosa mi interessa sapere.

Le dico di parlarmi del terremoto, dei suoi ricordi di quella sera, di quel periodo e soprattutto di come sia maturata la scelta di lasciare quel posto. «Cosa vi devo dire, sono passati tanti di quegli anni. All’epoca a Ferruzzano eravamo circa un migliaio di residenti ma la maggior parte erano fuori per lavoro al Nord e all’estero, in paese eravamo poco meno di seicento persone. Ricordo bene quella sera dell’11 marzo di trentasette anni fa, le strade erano piene di bambini, io ero a casa e mia figlia Agata era appena uscita per raggiungere la sezione del partito socialista dove c’era un congresso al quale partecipavano esponenti del partito venuti da tutta la Calabria. Quando la terra ha iniziato a tremare sono stati momenti interminabili. Dopo un fuggi fuggi generale ci siamo radunati in piazza, dove ci siamo subito resi conto che, nonostante non ci fossero stati feriti, i danni alle abitazioni erano pesanti e le scosse riprendevano di continuo. Dalla piazza ci siamo trasferiti a casa del farmacista Sculli da dove lo stesso farmacista e il sindaco Antonio Condemi chiamarono i primi soccorsi. Esercito, carabinieri, tanta gente comune, in paese era il caos. Allertata la Prefettura, in tempi record, già nel corso della successiva nottata, fummo trasferiti presso un albergo di Brancaleone dove siamo rimasti per quasi otto mesi assieme alla gente di Pietrapennata, una frazione di Palizzi che come noi era stata evacuata. Dopo meno di un anno ci siamo trasferiti dove siamo ora, ma in un accampamento di tende che ci aveva fornito, credo, la Regione o lo Stato. Non ricordo bene».

Chiedo alla signora se sa perché si sia scelto di scendere verso la marina e quello che affiora dal racconto è un quadro sempre più lucido e chiaro che mi conduce verso uno di quei bivi cui faccio spesso riferimento. «Nel 1907 – prosegue la signora Francesca – ci fu un altro terremoto che fece tantissime vittime distruggendo buona parte del paese. L’idea di trasferire l’abitato partì già da allora, quando il geologo Giuseppe Mercalli aveva lanciato la sentenza dicendo che Ferruzzano di lì a cinquant’anni non ci sarebbe più stato, inghiottito da altri terremoti e bradisismi. Dopo quel terremoto nascono delle baracche in una zona che chiamiamo Saccuti, dove c’è un piccolo nucleo abitato. Le famiglie influenti dell’epoca iniziano una contesa per individuare il luogo più adatto a ricostruire il paese ma, a dire il vero, la storia del trasferimento è lunga. Parte nel 1907 ma c’è un’altra data importante che è intorno al 1920, quando nasce la fermata della stazione ferroviaria alla marina. Fino ad una cinquantina di anni fa usavamo costruire le logge a mare dove passavamo più di tre mesi nei periodi più caldi, però, già dopo l’alluvione del 1951, molti avevano iniziato a costruire per conto proprio in quest’area dove siamo adesso. Possiamo dire che quel terremoto del ‘78 ha solo accelerato una decisione che era stata suggerita da Mercalli e sottolineata da chi ha voluto la fermata della ferrovia. Dopo il ‘78 arrivano però anche i soldi della Regione e allora si decide di costruire tutto il paese. I lavori sono durati quasi quindici anni e ora siamo qua, a raccontare quello che è successo. Se penso a quel tempo, mi viene in mente che il nostro era un paese ricco dove si allevava il baco da seta e si produceva un ottimo vino, quello a dire il vero si produce ancora; perché la nostra gente è legata ai terreni agricoli, ma, devo essere sincera, lassù nel vecchio centro in molti abbiamo lasciato il cuore, là ci abbiamo passato una vita e, nonostante ora siamo in marina, casa nostra rimane quella».

Saluto la signora Francesca che ricambia con un sorriso, la ringrazio per la sua preziosa ricostruzione, ormai è quasi buio e mi rimetto in marcia verso casa, l’autoradio è accesa ma in realtà e come fosse spenta, la mente è troppo occupata a mettere in ordine quel mare di informazioni e soprattutto a pensare come tradurre nero su bianco quel mare di sentimenti trasmessi in modo tanto rapido quanto efficace in quasi due ore passate davanti al camino acceso, due ore che ripasso rapidamente e più rifletto più penso che a sentire certi racconti, a guardare quegli occhi profondi e saggi, ti sembra di essere in un’altra dimensione. Quello che ti circonda di colpo scompare e ti sembra di essere diventato tu stesso il protagonista di vicende che in realtà ti sono state solo raccontate, forse perché certi drammi sono comuni, forse perché la forza della saggezza riesce ad imprimere e rendere indelebile l’emozione, sarà tutto questo e forse anche qualcos’altro ma una cosa è certa: rientro da Ferruzzano con qualche certezza in più.

Dopo essermi immerso in quel racconto capisco che, nei percorsi della storia di questi due paesi, le analogie suggerite dallo stesso ritmo sussultorio e ondulatorio di quell’undici marzo, in realtà sono davvero poche. Anche se non ve lo dico ora ho qualche certezza in più su quale sia il piatto della bilancia ad essersi abbassato maggiormente, capisco ancora meglio come le personali storie dei luoghi e delle genti si possano scrivere e ridisegnare di continuo, ma, una volta scritte, le loro tracce rimarranno indelebili.


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