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Ritratti. Alfonso e Mica

  •   Domenico Luppino
Ritratti. Alfonso e Mica

Se ne stava seduto all’ombra delle fronde della grande palma, che sporgevano oltre la ringhiera del palazzo di don Michelangelo il notaio. Non che la presenza di Alfonso, con la sua faccia perennemente triste e malinconica, per tutti “ Ffronzu u messinisi”, fosse tanto gradita ai componenti della famiglia del notaio. Diciamo, che quel tipo stralunato, seduto all’angolo del marciapiede del palazzo, veniva a mala pena tollerato. Meno male che il balordo aveva deciso di occupare quel posto solo in estate ed anche a delle ore del giorno assai improbabili. Il Notaio, che tra tutti era quello più tollerante, anche se di tanto in tanto minacciava di uscire a prenderlo a pedate, ma lo faceva più per compiacere la moglie e le figlie, ogni tanto affacciandosi dalla finestra dello studio, quasi a fargli pagare pegno per l’ombra di cui quello fruiva impunemente, chiedeva ad Alfonso, anche se di sigari aveva la casa piena, di andargli a comprare i toscani. Alfonso, senza proferire parola, prendeva le poche lire che don Michelangelo gli lanciava e si avviava a fare la commissione. Di passo lento si allontanava e di passo altrettanto lento ritornava. Tanto che al Notaio, sovente, capitava di dimenticarsi di lui. Quando se ne ricordava, correva immediatamente ad affacciarsi e lungo il tragitto che lo portava alla finestra o in veranda, imprecava: «ju mi si ‘mbivi i sordi, stu figghiu i buttana».  Immancabilmente, Alfonso era seduto nel suo angolo preferito e teneva accanto a se i sigari. E don Michelangelo: «ma se turnasti, pecchì non mi chiami, pezzu di cazzuni?» Alfonso, non si scomponeva, si alzava lentamente e si avviava verso il portone del palazzo, dove di lì a pochi attimi sarebbe apparsa Maria “l’orba”, serva di casa, che gli avrebbe strappato i sigari dalle mani ed imprecandogli contro gli avrebbe richiuso il portone in faccia, ogni volta con sempre più violenza. Non che Alfonso se ne curasse molto, nella sua vita di “malanove “ ne aveva raccolte a “cofanate”. Sotto la frasca della palma, passava quasi tutti i pomeriggi d’estate. Senza far nulla di particolare, guardava ora in avanti, ora da un lato e dall’altro, solo ogni tanto si soffermava a guardare il cielo e la vallata di ulivi che da quel posto si potevano contare. Poi, verso l’ora che la calura si andava attenuando e gli altri iniziavano a mettere il naso fuori casa, si incamminava verso la sua di casa, scandendo, un passo e via l’altro, la scalinata che portava verso la parte bassa del paese. A  proposito di casa, come Alfonso fosse finto ai piedi dell’Aspromonte, era un tempo cosa assai consueta. Capitava, infatti, che si rendesse necessario trovare un marito per qualche giovane fanciulla del paese. La quale, a cagione del fatto che nella prima gioventù e anche oltre non era riuscita a contenere le proprie voglie e si era intrattenuta, diciamo così, con parecchi uomini del paese. Questo era accaduto a Mica e nel momento che stava per superare l’età da matrimonio, non aveva ricevuto alcuna proposta. Essendo necessario, comunque, trovare uno sposo per la giovane, a che le vergogne e la povertà della famiglia, ancorché note a tutti, venissero coperte dal manto del Santo Sacramento. Si ricorreva, al tempo, ad un rimedio assai diffuso: si andava a cercare, il più delle volte attraverso mastro Vincenzo “u sensali”, un forestiero da proporre come marito. In questi casi, tuttavia, il forestiero non poteva essere di un paese vicino, ma preferibilmente doveva provenire dall’altra sponda dello Stretto di Messina, dove le notizie, a causa del mare, arrivavano attenuate o non arrivavano per nulla. Bisogna comunque fare attenzione a questo passaggio. Il fatto di andare a trovare il soggetto dall’altra parte dello Stretto, non deve far pensare che gli abitanti di Messina fossero degli allocchi o, come qualcuno sosteneva, dei cornuti. Caso mai è più corretto dire che sull’altra sponda si andava alla ricerca del caso di allocco conclamato. Per dirla meglio, si cercava di mitigare, di aiutare due “disgrazie”. Quindi, questa sorta di mutuo soccorso tra disgraziati, ovviamente, non avveniva solo da Scilla verso Cariddi, ma in entrambi i sensi.

Alfonso, nel paese aspromontano dunque c’era finito a quel modo. Era arrivato, abbandonando la sua spiaggia di Paradiso, dove aveva vissuto per trent’anni. Accompagnato dai genitori, ai quali non pareva vero di potersi liberare di quel figlio che li aveva fatti così angustiare, giunse in paese. Un tipo strano, quel loro ultimo, che passava giornate intere a disegnare con il carbone il mare, su dei fogli di carta da pane e che per mare, erano una famiglia di pescatori, non c’era stato verso di farlo andare.

Due sventure, erano considerati i due in quegli anni : una puttana ed un idiota.

Alfonso e Mica, vissero insieme tutta la restante parte della loro vita. Lavorando entrambi, fino che ne ebbero le forze, a giornata. Non ebbero figli, perché lei non poteva averne. Entrambi, si ritagliarono i loro spazi. Mica, per più tempo dopo il matrimonio, continuò a soddisfare se stessa e le proprie voglie giovanili fino a che ne ebbe “gana” e fino a che non si accorse di volergli bene ad Alfonso e non trascurando mai i doveri coniugali. Alfonso, si ubbriacava ogni sera e intervallava i suoi interminabili silenzi, contrapponendo qualche parola di assenso o di diniego alle valanghe di parole di Mica. Col tempo, dunque, si vollero bene, di un bene profondo e disinteressato, come solo una puttana ed un idiota dal cuore enorme possono essere capaci. Mica, se ne andò in un pomeriggio di novembre, serenamente. L’altro, si accorse che si era congedata, perché non la sentì parlare per qualche minuto. Alfonso, qualche mese dopo, la seguì. Lo trovarono al mattino, piegato sul suo banchetto di legno, nell’angolo accanto al camino, aveva disegnato il mare, come sempre, ma stavolta, in quell’ultimo disegno, s’intravedeva in lontananza una giovane donna. Quando gli sollevarono la testa, da riversa sul banchetto che era, Alfonso aveva stampato in viso un sorriso che mai nessuno gli aveva visto prima. 


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