Ritratti. I poeti contadini di Saverio Strati
- Francesco Barillaro
di Francesco Barillaro - Nel gennaio del 1953 la rivista “Vie Nuove” pubblica, su suggerimento di Saverio Strati, un interessante servizio sui poeti-contadini di Sant’Agata del Bianco, “riscoperto” e ampliato sul n° 35, settembre 2016 di In aspromonte, da Domenico Stranieri. Successivamente, sul n 10 dell’ottobre 1962 della prestigiosa rivista del Touring Club Italiano “Le Vie D’Italia" l’argomento viene ripreso personalmente da Saverio Strati. Ne viene fuori uno spaccato di miseria e povertà, la fame, la guerra le condizioni tristi in cui versavano i contadini del luogo, sfruttati dai padroni. Ma nello stesso tempo si alza alto e vibrante un grido di protesta verso i benestanti e il governo. Sorprende la forza d’animo di queste persone che malgrado le condizioni disperate in cui vivono riescono a comporre versi, dedicano alla persona amata vere e proprie composizioni colmi di liricità e pieni di sentimenti.
Così scrive Strati: Mi venne l’idea di raccogliere delle poesie dialettali, da poeti e contadini viventi, un giorno mentre andavo in campagna. Ero ritornato da Messina, stanco e annoiato della città. Avevo bisogno di aria libera, di sole, di odore puro di terra. Uscì di casa che il sole era a mezzo cielo e mi avviai in campagna. Lungo la strada udii il canto di alcune contadine che pulivano il grano dalle erbacce:
Quando nescivi eu, lu sventuratu,
me mamma mi guardava e mi ciangìva…
(Quando sono nato io, o sventuratu – mia madre mi gurdava e mi piangeva…)
«Mi fermai per ascoltare questo canto popolare troppo triste, con la speranza di sentirne qualche altro. Infatti le donne incominciarono subito un altro canto che, per il suo significato, sarebbe di certo piaciuto anche a Leopardi»:
Tuttu lu beni meu era la fascia,
quand’era piccirillu e non sapìa.
Cu’mi basàva e cu’ mi tenìa’mbrazza,
cu’ mi facìa la ninna, gioia mia.
Ora su’ rand’e ognunu si ndarssa,
pari ca ndaju lu focu cù mia.
Fa prestu, mamma, portami a la fascia,
se pozzu aviri lu beni chi avìa.
(Tutto il mio bene era la fascia, - quand’ero piccolino e non sapevo. – Chi mi baciava e chi mi teneva in braccio, - chi mi faceva la ninna, gioia mia. – Ora sono grande e ognuno se ne allontana, - come se avessi il fuoco con me. –Fa presto, o mamma, riportami alla fascia, - se posso riavere il bene che avevo). La poesia popolare calabrese ha sempre un tono disperato e malinconico insieme ( a dimostrarlo potrebbero bastare i pochi versi riportati). E quel tono triste e sconsolato continua, si ripete altresì nei poeti dialettali viventi, i cui canti, in quegli anni, venivano recitati per le strade anche dai bambini. Pensai che valeva la pena raccoglierli; e mi diedi subito all’opera.
«Cercai per primo Michele Strati, un mio cugino bracciante la cui miseria, specialmente durante il periodo fascista, era diventata proverbiale, in paese. Lo andai a trovare a casa sua, la quale è una specie di tana: una sola finestruola e la porta, il focolare e le panche intorno, un cassone e un pagliericcio su trespoli di legno. É sordo e non sa scrivere venne a casa mia e mi cantò la seguente canzone».
Non fann’attru chisti nostri signori
Ogni jornu ‘nta chjazz’a passijari;
pè prima cosa si mentun’a diri:
“U bassu populu ndavim’a a scacciari”.
Ndannu li vigni e li ‘ randi girdini
E tutti quanti li ndann’a zappari;
e si votanu cù ‘nganni e cù risi:
“U bassu populu ndavim’avvisari”.
‘U garzuni lu sentimu chjamari:
“É vi salutu, cumpari Micheli,
‘u me patruni v’aspetta domani”.
É si dumanda pè paga e pè spisa…
“Non sacciu nenti, veniti a zzappari”.
Part’a matina cu zzappa nte mani
E li mè figghi ciangendu li dassu:
morti di fami su, nudi e sciancati.
Veni la sira e ciangendu li trovu:
morti di fami si vannu a curcari.
Cinsiderati chi cori e chi pensu,
videndu i mè figghi chi vonnu mangiari.
É part’e vaju nta chisti signori,
si vonnu pagari i mè ffritti jornati.
Ffaccia la serva, rispund’è mi dici:
“Ha fattu viaggiu, tornati domani”.
Torn’a matina cù ‘randi premura,
pemmi mi paga ‘i mè ffritti jornati.
Ffaccia la serva, rispund’e mi dici:
“Ha fattu viaggiu, tornati domani”.
Torn’a matina cù ‘randi premura,
pemmi mi paga ‘i me ffritti jornati.
Ffaccia la serva, rispunde mi dici:
“Tornati stasira, ca andav’a scangiari”.
Vaju la sira cù cori’nte mani;
pemmi mi paga ‘i me ffritti jornati.
Ffaccia la serva, rispund’e mi dici:
“Fermati nu pocu, ca andav’a a mangiari”.
(Non fanno altro questi signori, -ogni giorno in piazza a passeggiare. – Per prima cosa si mettono a dire: - “ Il basso popolo dobbiamo schiacciare”. – Hanno le vigne e i grandi girardini, - e tutti quanti li devono zappare; - e si voltano con inganni e con risi: - “ Il basso popolo dobbiamo avvisare”. Il garzone lo sentiamo chiamare: - “ Io vi saluto compare Michele, - il mio padrone vi aspetta domani”. Io gli domando per la paga e per la spesa. – “non so niente, venite a zappare”. – Parto la mattina con la zappa in mano, - e lascio i miei figli che piangono: - morti di fame sono, nudi e cenciosi. – Viene la sera e li ritrovo che piangono: - morti di fame si vanno a coricare. – Immaginate il mio cuore e che penso, - nel vedere i mie figli che vogliono mangiare. – Parto e vado da questi signori, - se vogliono pagare le mie afflitte giornate. – Si affaccia la serva, risponde e mi dice: -“ Ha fatto viaggio, ritornate domani”. – Ritorno la mattina con grande premura, - perché mi paghi le mia afflitte giornate. – S’affaccia la serva , risponde e mi dice. – 2Ritornate stasera, chè deve scambiare”. Vado la sera col cuore in meno, - perché paghi le mie afflitte giornate. – S’affaccia la serva, risponde e mi dice: - “Aspettate un poco, che deve mangiare”).
«Ero incredibilmente commosso» dice Strati, nel sentire il tono accorato della voce di Michele; il quale nel ripetere i suoi versi, riviveva quei tristi giorni di misera avvilente e il suo dolore di padre per la fame dei figli; riviveva la sua mortificazione e umiliazione di uomo che era costretto a consumare le scarpe, a scappellarsi, a ringraziare prima di ricevere il compenso misero, per le sue “afflitte giornate”.
Rocco Luvarà è un poeta di altra generazione e di altra natura. Un vecchio pastore di circa ottanta anni. Lo andai a trovare in campagna accompagnato da un suo nipote. Trovammo il vecchio in un prato di erba con due capre davanti. Era lunedì di Pasqua. Piovigginava e faceva anche freddo. Il pastore aveva un mantello di orbace sulle spalle. Era tutto rannicchiato dietro una roccia, al riparo dal vento freddo che veniva dall’Aspromonte. “Nonno questo mio amico desidera sentire qualche vostra poesia”, gli gridò il nipote. “Che poesia?! Io non so poesie”, disse il vecchio e alzò gli occhi su di me. Li aveva azzurri, come un nordico, e straordinariamente vivi. “Non è un carabiniere”, gli disse il nipote. “Non dovete aver paura”. Mi spiegò, sottovoce, che aveva paura dei carabinieri, perché anni addietro aveva composto una poesia contro il governo. “Vorrei sentire qualche vostra poesia”, gli dissi. “Non abbiate paura. Nessuno vi farà niente”. Il vecchio mi guardò di nuovo. Si rassicurò e disse: “Ha fatto migliaia di poesia, nella mia vita. Ma ora non le ricordo. Ho perso la memoria. Non so leggere né scrivere e la memoria era tutto per me. Una volta venivano anche dagli altri paesi e m’incaricavano di fare le farse e delle canzoni d’amore. Ora sono vecchio e aspetto la morte. Se me la ricordo, qualche poesia ve la dico” concluse. Abbassò la testa. Certo scavava nella sua memoria incerta e debole. Lo sentivo infatti mormorare qualcosa, mi accorsi che batteva ritmicamente la punta dell’indice su una gamba. “Non suona bene”, disse ad un tratto, scuotendo la testa. Per il vecchio la poesia era ritmo, come per gli antichi poeti greci. Il vecchio il ritmo, la musica li aveva nel sangue. Era una grande lezione per me. Mi pareva di essere tornato a tremila anni addietro, al tempo dei poeti pastori. Il vecchio mormorava ancora qualcosa e batteva con più sveltezza il suo dito sull'anca. “Ora suona è venuta”, disse, e mi guardò con gli occhi pieni di luce. Attaccò:
E ‘ u figghju ‘ i chilla gnura
Port’a giacca a cacciatura,
su spaccuni e su vappusu
voli jiri tutt’a lussu.
La matina lu vediti
Cu lu specchju e pettiandu,
esi la faci jestimandu…
(E il figlio di quella donna, -porta la giacca alla cacciatora, - questo spaccone e questo guappo – vuole andare a tutto lusso. – La mattina lo vedete – con lo specchio e che si pettina, - lo mandate a faticare, - e incomincia a bestemmiare).
Un discorso a parte merita la poesia d’amore di Rocco Luvarà:
Cittu zzampoghi mei cchjù non sonati,
ora chi jiù a lettu la mè ddia.
Sonati a leggiu, ca la risbigghjati:
cu risbigghja ‘ na bella fa tirannia.
E vui lanzola chi la cumbogghjati
Dati nu basu vui pè mia;
e vui coscino chi a la facci stati
diti nommi si sperdi mai di mia.
(Tacete zampogne mie, più non suonate, - ora è andata a letto la mia dea. – Suonate leggermente, se no la svegliate: - chi sveglia una bella fa tirannia. – E voi lenzuola che la coprite, - datele un bacio da parte mia; e voi cuscini che alla faccia state, - ditele che non si dimentichi mai di me).
Tanta finezza di sentire si può trovare soltanto nella poesia antica. Ma più bello ancora e più fine mi sembra il secondo canto:
O jornu benidittu, o ura santa,
quandu la mamma vostra fici a vui!
Supra lu celu sonava ‘na banda,
l’angiali festeggiavanu pè vui.
Cristu vi fici pè la mia spiranza
Mindi godimu stu mundu nù ddui.
Ca se la sorta ndavveria crianza,
nullu sarria cchjù filici di nui.
(O giorno benedetto, o ora santa, - quando la madre vostra fece voi! – Sul cielo suonava una banda, - gli angeli festeggiavano per voi. – Cristo vi fece per la mia speranza, - perché ci godiamo questo mondo noi due. – chè se la sorte avesse creanza, - nessuno sarebbe più felice di noi).
Il cielo, gli angeli, Cristo stesso si sono mossi e rallegrati per la nascita di questa donna. Ma lei invero non pare nata per la felicità del poeta, il quale la invoca che almeno si lasci guardare.
Mentri ti viju a la finestra stari,
ti pregu, anima mia, non ti ndi jiri,
dassami st’affritt’occhi saziari,
mentr’a li brazza non ti pozz’aviri.
Magu non sugnu no, non ti spagnari,
non pè nu sguardu meu tu po’ moriri.
Se pè lu menu non mi poi amari, non ti jiri ammucciandu e n’arridiri.
(Mentre ti vedo alla finestra stare, - ti prego, anima mia, non te ne andare. – Lasciami quest’afflitt’occhi saziare, - dato che nelle braccia non ti posso avere. – Mago non sono, no, non ti spaventare, - non per un mio sguardo tu puoi morire. – Se per lo meno non mi puoi amare, non andare nascondendoti e non ridere).
Nei giorni seguenti, cercai Agata Arcadi; una povera madre di numerosa famiglia, magra, cenciosa, scalza. Eppure quella donnetta ha un’anima capace di cantare. Se la prende con la sua sorte tiranna che da sempre la bersaglia, ma alla fine la prega di renderla felice almeno per un’ora sola, perché tra tanti guai arriva la morte, che non tiene per niente conto di chi ha goduto o soltanto sofferto.
Sorti tiranna, traditura e cruda,
mi fai campar’in disperazioni.
Eu chjamu la morti ura pè ura
E non la viju mai pemmi veni.
Si vidi ca pè mia fu ‘na sventura
Nta ‘stu mundu nommi ndaju beni.
Fammi, sorti, campari filici ‘n’ura,
ca a mmenz’ a tanti guai la morti veni.
(Sote tiranna, traditrice e cruda, - mi fai vivere in miseria. – Io chiamo la morte di ora in ora, - e non la vedo mai arrivare. Si vede che per me è stata una sventura, - non avere bene (pace) in questo mondo. – Fammi, o sorte , vivere felice per un’ora, - perché in mezzo a tanti guai arriva la morte).
E, arrivata la morte, non c’è speranza di altra vita, per questa donna. Ma pare che all’improvviso le cose incominciano ad andar bene. La sua sfortuna è addormentata, anzi ammalata.
La mè sfurtuna la ndaju malata, esti a lu lettu, chimmi moria!
Oh, se pè sorti sapissi la strata, eu sùbita morti si daria!
Ma pregu Cristu mi staci malata,
fin’a chi si dimentica di mia.
(La mia sfortuna ce l’ho ammalata, - è a letto, potesse morire! – Oh, se per sorte conoscessi la strada, - io sùbita morti le darei. – Ma prego Cristo che stia ammalata, - finchè mi dimentichi).
Altro respiro, altro tono c’è nella lettera immaginaria che la donna indirizza al figlio prigioniero, o morto, lei stessa non lo sa:
Mè caru figgju, mi sentu moriri,
‘u tò silenziu mi fa dilirari.
Dimmi: sì mortu?
Cu la destra tua poi scriviri?
Mandami nu sulu rugu,
dimmi undi ti portau ‘u tò destinu.
Forzi ti portau a lu mundo scuru,
undi mancu l’urcelli ponnu volari?
Forzi non pensi cchjù e to genituri?
‘U sacciu: si prigiunieru:
sii come l’uccelluzzu senz’ali,
chi vaji volandu cortili cortili.
O figghju, o figghju, mi senti finiri!
Dimmi, Peppi, quandu ritorni?
Parlami, scrivimi!
Passu li jorna cu ttia parlari,
passu li notti a ttia sognari.
Paccia mi sentu, figghju di li mè peni,
e pè la strata mi veni gridari.
Ciangiu, pregu, parlu,
non sacciu cchju quali santu pregari!
Dimmi, Peppi, quandu ritorni?
Se tu, figghju, tardi pemmu veni,
supr’o cimiteru mi po’ trovari,
e non ti resta attru da diri:
“Mamma, requia statti in paci!.
(Mio caro figlio, mi sento morire, - il tuo silenzio
O mi fa delirare. – Dimmi: sei morto? – Con la tua destra non puoi scrivere? – Mandami un solo rigo, - dimmi dove ti ha portato il tuo destino. Forse ti ha portato nel mondo scuro, - dove nemmeno gli uccelli possono volare? – Forse non pensi più ai tuoi genitori? – Lo so: sei prigioniero, - sei come l’uccelletto senza ali, - che va volando cortile cortile. – O figlio, o figlio, mi sento finire! Dimmi, Peppi, quando ritorni? – Parlami, scrivimi! – Passo i giorni a parlare con te, - passo le notti sognandoti. – Pazza mi sento, figlio delle mie pene, - e per la strada mi viene da gridare. – Piango, prego, parlo, - non so più quale santo pregare! – Dimmi, Peppi, quando ritorni? – Se tu, figlio, tardi a venire, sopra al cimitero mi puoi trovare, - e non ti resta altro da dire: - “Mamma, requiem statti in pace”).
Poesia veramente bella. Le domande si accavallano, l’ansia di conoscere la sorte del figlio cresce di verso in verso; alle domande si dà lei stessa la risposta: immagina, suppone, prega, parla, piange, non sa a quale santo rivolgersi, e così i versi cambiano ritmo, vengono fuori quasi in disordine, ma diventano pianto: poesia.
Saverio Strati