Ritratti. Il forestiero e il mio amico Rocco
- Domenico Luppino
Tra le tante figure che affollano la mia memoria, ce n’è una che rammento con particolare piacere. Avevamo, ad unirci, oltre che una amicizia familiare e una vicinanza di casa, anche una certa qual parentela, generatasi come e chi sa quando, come capita spesso nei nostri piccolo paesi aspromontani, che alla fine si finisce per essere tutti parenti. Si chiamava Rocco e la sua vita era stata segnata, come quella di tanti della sua generazione, da una giovanile disavventura: la seconda guerra mondiale e, in particolare, il fronte russo. Si commuoveva sinceramente, Rocco, quando raccontava di quei giorni e delle “centomila gavette di ghiaccio”. Tuttavia non smise mai di raccontare di quei frangenti, fino alla fine dei suoi giorni. Mitigandone gli aspetti più tristi e drammatici con l’ironia, che era una caratteristica dell’uomo, e con la leggerezza con la quale si raccontano le vicende, anche se dure, della propria giovinezza.
A lasciare sul suo corpo un segno indelebile di quel periodo, le dita delle mani e dei piedi deformate da un congelamento volontario, fu un atto irresponsabile e coraggioso. In una fredda notte, da molte cifre sotto lo zero, per scampare ad una fine quasi certa (ed anche se così non è stato va bene lo stesso), Rocco si pisciò le mani ed i piedi. Il caldo della sua urina ed il freddo esterno gli trasformarono gli arti per sempre. In compenso, lo fecero finire sotto una tenda con una grossa croce rossa disegnata sul tetto e da lì verso una lunga marcia di ritorno che lo riportò a casa sano e salvo. Aveva il senso dell’umorismo innato, il nostro. E, se non fosse stato vinto, come molti di noi, dai freni sociali imposti dall’essere figli di questa terra, forse avrebbe avuto altre soddisfazioni dalla vita. Invece, dopo essere scampato dalla furia della guerra, fu costretto ad affrontare delle prove altrettanto terribili, imposte della vita, di quelle che ti fanno perdere definitivamente la capacità di lacrimare, come solo la perdita prematura di un figlio può esserne causa.
Non ricordo di averlo mai visto piangere, e non perché fosse un duro, anzi. Ma solo perché il dolore era di molto soverchiante sulla pena. Ricominciò, dopo che aveva smesso tanto tempo prima, a fumare le sue mille “Esportazioni” senza filtro al giorno, rimestando le tasche alla ricerca dell’ennesimo fiammifero di legno, che accendeva sfregandolo sui muri e tenendolo tra quelle strane dita, che dicevano di soldato e di uomo vinto e lavoratore instancabile. Continuò a raccontare della sua Russia, dei suoi commilitoni, con la stessa ironia di sempre, forse con un po’ più di rabbia. Storie sentite mille volte, sempre uguali, ma che non finivano mai di catturarmi. Sempre tenendo in bocca e tra le mani quella sigaretta, alla ricerca, forse, di quell’epilogo che il suo cuore già malandato gli avrebbe presto riservato.
Delle tante sue storie, che forse varrebbe la pena di ricordare, una più delle altre è utile raccontare. Dico subito che è stata ripresa da un importante e contemporaneo autore e romanziere ed inserita in qualche suo scritto. Ma i diritti, come ho avuto modo di dire all’amico scrittore, sono tutti di Rocco. Un forestiero, in una calda giornata d’estate, giunse in paese con la corriera del mattino. Da subito dopo il suo arrivò, inizio a chiedere a destra ed a manca di un certo tizio, di cui mai nemmeno io seppi l’identità. Tuttavia, da come si svolsero i fatti, doveva essere per forza di cose un uomo di (si fa per dire) “rispetto”.
Pare, che il forestiero vantasse un forte credito dall’uomo che stava cercando. O, per meglio dire, pare che il forestiero fosse stato buggerato con destrezza dal mio illustre compaesano. Pertanto, vicenda che stava a testimoniare non necessariamente la delittuosità del suo comportamento, quanto la dabbenaggine del forestiero. Dopo avere vagato per il paese per una giornata intera, sotto un sole cocente, il poveretto non era riuscito a cavare un ragno dal buco. Con molti si era intrattenuto, ma l’impressione che ne aveva tratto era stata di essere vittima di una sorta di presa per i fondelli organizzata. Tutti a decantare le lodi di “galantuomo” del suo creditore, ma altrettanti a disconoscerne il domicilio.
Tra i tanti, quando la disperazione stava per prendere il sopravvento, gli occhi del forestiero s’incrociarono con quelli di Rocco. Forse, si dissero che era il momento di chiudere definitivamente quella ignobile farsa. Ad ogni modo, il tizio decise di chiedere anche e per ultimo al nostro. Rocco, dopo avere sentito cotanto nome del ricercato, guardò il suo interlocutore, da sopra gli occhiali che portava sulla punta del naso, ci pensò un attimo e sentenziò: «Guardate, il più onesto di questo posto sono io e meriterei trent’anni di galera». Non ci fu bisogno di aggiungere altro, l’uomo si allontanò e di lui non se ne seppe più nulla.