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  •   Domenico Luppino
Ritratti. «So io cosa mi porto dentro...»

Dopo che si erano accertate che il loro vecchio padre fosse davvero morto, le due donne, uniche figlie di quello sciagurato genitore, non smettevano di ripetersi “che se n’era andato contento”. Non è chiaro se le due lo dicessero con ironia o piuttosto perché era quello che volevano che la gente pensasse, sta di fatto che continuarono a ripeterlo per molto tempo avvenire. Una cosa è certa, in quei primi momenti, se lo andavano dicendo una con l’altra, parlando a voce bassa e con fare concitato, quasi rabbioso. Assalite, com’erano, da un’euforia incontrollabile. L’inaspettata notizia, “la mala erba non muore mai”, le aveva colte di sorpresa.

Di prima mattina, con la bocca e gli occhi impastati di sonno, di primo acchito avevano provato sincera paura. Poi, si erano rese conto che a dar loro la notizia era stata Irina, con il viso rigato dal pianto. Già, proprio lei, “la zoccola ucraina”, quella che da quando era arrivata aveva portato la rovina nella loro casa. Giunte all’interno della dimora paterna, trovarono il vecchio steso dalla sua parte del letto matrimoniale. Non ci misero molto ad essere distratte, più che dalla figura dell’uomo che pareva dormisse, dall’altra parte del talamo nuziale, che era stato della loro povera madre, che appariva sfatto. E nel mentre distrattamente e per scrupolo estremo tastavano il polso muto del padre, le due fissavano quel lembo di letto come a scoprirne le indicibili lussurie.

Quando si riebbero, non è dato di sapere se dal dolore, dall’invidia o dalla gelosia, si dissero che prima di comunicare a parenti, amici e vicini di casa la ferale notizia, dovevano dare “decoro” a quella casa. Irina, che nel frattempo se ne stava seduta in un angolo e continuava a singhiozzare di lacrime sincere, si offrì di aiutarle. Anche se in quella casa aveva passato i migliori anni della sua vita, perché da quell’uomo era stata amata e lei lo aveva ricambiato, sentiva di dover dimostrare a quelle due di essere, comunque, solo la “badante ucraina”. Ma le due donne rifiutarono stizzite il suo aiuto, la interpellarono soltanto quando fu il momento di spostare il corpo inerme dell’uomo, per poter rifare il letto. E non capiva, Irina, quale fosse il decoro di cui parlavano quelle donne.

Lo comprese, quando le vide rovistare affannosamente tra le poche carte di quello che era stato il suo uomo. Vecchi, pochi e miseri ricordi di una vita. Lettere ingiallite, il congedo militare ed una vecchia foto in bianco e nero di una ragazza di colore con il seno nudo, con dietro la scritta “Somalia 1939”, che, come estremo tributo al morto, fece pronunciare ad una delle due donne la sola parola: «Porco!». Si acquietarono solo quando trovarono ciò che andavano cercando: il libretto di risparmio delle Poste, con all’interno la somma di danaro, intatta, che da anni avevano stimato che il vecchio custodisse.

Come accade a chi accumula adrenalina e rabbia per tanti anni e poi scarica in pochi attimi, le due donne si accasciarono, vinte da una fatica immane, su due poltroncine che facevano da “decoro” alla stanza buona di quella casa. C’è da dire che non è affatto scontato che il vecchio se n’era andato contento. Anzi, si sarebbe portati a sostenere con forza che il poveretto non voleva proprio lasciare quella vita che era riuscito a costruirsi negli ultimi anni. Da quando, infatti, nella sua vita era entrata Irina e ne erano usciti, al contempo, prima la moglie (a causa della prematura scomparsa), donna di cui nessuno ricordava un sorriso o una parola o un gesto gentile; e poi le figlie e relativi consorti e prole, degne eredi della di loro madre (a causa del fatto che il vecchio le aveva volutamente e fortemente estromesse dalla propria vita); nonostante gli acciacchi dell’età, non passava giorno che il nostro non provasse vera gioia di vivere. Ma cosa avesse provato al momento del trapasso, oggi poco importa. Così va la vita o, per meglio dire, la morte.

Tornando alla nostra storia, le due donne, proprio a cagione di avere scaricato cotanta rabbia, assunsero le sembianze adatte per la rappresentazione dell’affranto amore filiale. Per tutto il giorno, la casa si affollò di amici, parenti e vicini affranti. Dalla stanza delle donne, dove era stata sistemata la salma, provenivano e giungevano sino alla piccola cucina sul retro, dove era stata confinata Irina, lamenti e pianti ad intermittenza. A proposito, Irina ad un certo punto scomparve da quella piccola stanza e anche da quella casa e non se ne seppe più nulla. Tutto era programmato perché durasse tre giorni: «Nu bonu diri o nu malu diri dura tri jorna». L’obiettivo, quindi, era quello di riabilitare la memoria del vecchio “porco”, quindi di avere da quei tre giorni un definitivo “bonu diri” su quel “degenerato”.

Quando arrivò la sera di quella prima faticosa giornata, le due donne accolsero, per una volta senza controbattere, l’invito dei rispettivi mariti ad andarsi a riposare. A vegliare la salma ci avrebbero pensato loro. Non appena rimasero soli, i due cognati, che del suocero avevano apprezzato da sempre la passione per il buon cibo ed il buon vino, si chiesero dove il vecchio tenesse la dispensa, che certamente doveva essere di qualità sopraffina. Ci presero in pieno. Appena trovato l’anfratto della cantina, che il vecchio aveva eletto a scranno delle leccornie, i due ci diedero dentro con entusiasmo per l’intera nottata.

Al mattino seguente, di buon’ora, si ripresentarono le due donne, più affrante del giorno precedente, seguite dal codazzo di amici e parenti. I due cognati, che non avevano fatto in tempo a smaltire la sbornia colossale ad onor del suocero, cercando di darsi un tono, si misero seduti nella stanza degli uomini, muovendosi il meno possibile a scongiurare ulteriori ed imbarazzanti rischi. Uno dei due, il più intraprendente, per fugare ogni dubbio circa la loro sbarazzina condotta, stante gli effluvi nauseabondi che gli provenivano dalle viscere, allorquando dalla stanza delle donne i lamenti e il pianto arrivavano più intensi, si mise a ripetere: «Almenu vui chiangiti e sfogati, sacciu io chju chi aju ‘nda sta panza». (Almeno voi piangete e sfogate il vostro dolore, so io quello (quale pena) che mi porto dentro).


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